Itri (Lt). Nono giorno del novenario in onore della Madonna della Civita

Itri_Santuario_della_Civita.jpgItri_Civita_interno.jpgNovenario in onore della Madonna della Civita
Parrocchia Santa Maria Maggiore – Itri (Lt)
Predicatore P.Antonio Rungi, passionista

Nono giorno: mercoledì 18 luglio 2012, ore 19.00

Questa sera la celebrazione è dedicata a tutte le vedove e i vedovi di Itri. Occasione questa riflettere su Maria Regina protettrice delle vedove e dei vedovi. Pregheremo in modo particolare per coloro che hanno perso il marito o la moglie in questi ultimi anni e per tutte le vedove e i vedovi che con dignità hanno vissuto e stanno vivendo in assenza dell’altra metà della loro vita coniugale.
Anche Maria è rimasta vedova, con la morte di San Giuseppe il suo castissimo posto, senza il suo unico Figlio, Gesù Cristo, morto sulla Croce, davanti al suo sguardo di dolore e di sofferenza senza limiti. In Maria trovano conforto quanti sono rimasti soli nella vita, dopo una scelta di matrimonio vissuto con totale fedeltà al marito e alla moglie. Lo stato di vedovanza per molte donne ed uomini è una scelta di vita e fedeltà al matrimonio precedente. A volte è scelta di convenienza per non perdere la pensione e magari si vive more uxorio con altra donna o altro uomo, senza sposarsi in chiesa o si accede (oggi più difficile) al matrimonio religioso segreto (con dispensa del vescovo) per mantenere lo stato economico di maggiore favore. Dispense non visto di buon occhio, giustamente dalla Corte Costituzionale. Con la possibilità della separazione dei beni viene attenuato questo rischio di gravi perdite economiche in caso di seconde nozze.

La parola di Dio di oggi
Dal libro del profeta Isaìa

Così dice il Signore: Oh! Assiria, verga del mio furore,bastone del mio sdegno! Contro una nazione empia io la mando e la dirigo contro un popolo con cui sono in collera, perché lo saccheggi, lo depredi e lo calpesti come fango di strada. Essa però non pensa così e così non giudica il suo cuore, ma vuole distruggere e annientare non poche nazioni. Poiché ha detto: «Con la forza della mia mano ho agito e con la mia sapienza, perché sono intelligente; ho rimosso i confini dei popoli e ho saccheggiato i loro tesori, ho abbattuto come un eroe coloro che sedevano sul trono. La mia mano ha scovato, come in un nido, la ricchezza dei popoli. Come si raccolgono le uova abbandonate, così ho raccolto tutta la terra. Non vi fu battito d’ala, e neppure becco aperto o pigolìo». Può forse vantarsi la scure contro chi se ne serve per tagliare o la sega insuperbirsi contro chi la maneggia? Come se un bastone volesse brandire chi lo impugna e una verga sollevare ciò che non è di legno! Perciò il Signore, Dio degli eserciti, manderà una peste contro le sue più valide milizie; sotto ciò che è sua gloria arderà un incendio come incendio di fuoco

Salmo responsoriale
Il Signore non respinge il suo popolo.

Calpestano il tuo popolo, Signore,
opprimono la tua eredità.
Uccidono la vedova e il forestiero,
massacrano gli orfani.

Dicono: «Il Signore non vede,
il Dio di Giacobbe non intende».
Intendete, ignoranti del popolo:
stolti, quando diventerete saggi?

Chi ha formato l’orecchio, forse non sente?
Chi ha plasmato l’occhio, forse non vede?
Colui che castiga le genti, forse non punisce,
lui che insegna all’uomo il sapere?

Poiché il Signore non respinge il suo popolo
e non abbandona la sua eredità,
il giudizio ritornerà a essere giusto
e lo seguiranno tutti i retti di cuore.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».

Lo stato di vedovanza via privilegiata alla santità.
Tante sono state le vedove e i vedovi che nella storia della chiesa hanno raggiunto il grado di santità più elevata. Ricordiamo tra tutte santa Rita da Cascia, particolarmente venerata in questa nostra città. La vedovanza cristiana, vissuta in piena e consapevole adesione al disegno di Dio, può divenire un cammino di virtù e talvolta di santità, poiché il Signore dona la possibilità di trasformare uno stato di vita per così dire dimezzato, in una via di comunione con Lui e con i fratelli, nella Chiesa.
A questo proposito si può parlare, all’interno della spiritualità cristiana, di una spiritualità vedovile, per determinati valori che emergono da questo stato caratterizzato da un particolare stile di vita, da atteggiamenti e scelte che ne evidenziano le potenzialità e spesso anche la ricchezza.
Tutto questo non è sfuggito alla Chiesa che, animata dallo Spirito Santo, è tornata a guardare con amorevole attenzione alla figura ed al ruolo della vedova all’interno della comunità cristiana, memore di quanto avveniva nella Chiesa delle origini quando le vedove cosiddette “canoniche” o “catalogate” svolgevano un ministero ecclesiale, si dedicavano ad opere caritative e soprattutto, come scrive S. Paolo, avendo riposto ogni speranza in Dio, perseveravano notte e giorno nella preghiera e nelle suppliche (cfr. 1 Tim 5,5), svolgendo anche un ruolo di mediazione penitenziale con digiuni e preghiere.
Dopo secoli di oblio, se si fa eccezione degli scritti di alcuni celebri Padri della Chiesa fra i quali spiccano Sant’Ambrogio e Sant’Agostino e di qualche santo dell’età moderna, solo in età recente il problema della vedovanza è stato ripreso in considerazione soprattutto nei documenti del Concilio Vaticano II, anticipati da un importante discorso del Papa Pio XII rivolto alle vedove e pronunziato a Castelgandolfo il 16 settembre 1957 durante un Congresso della “Unione mondiale degli organismi familiari” dedicato all’infanzia orfana di padre e considerato la “Magna Carta” della spiritualità cristiana della vedovanza. Non dimentichiamo che il mondo di allora era uscito, da pochi anni, dalla terribile Il guerra mondiale che aveva seminato morte e lutto in ogni paese, distruggendo famiglie e producendo un numero esorbitante di vedove e di orfani, ai quali la Chiesa desiderava rivolgere un messaggio di speranza. A queste vedove, nel tempo si sono aggiunte le vedove o i vedovi bianchi, con le rispettive altre metà lontane da casa per motivo di lavoro o per altre esigenze quali le cure e le malattie.
Nel Messaggio di Pio XII incontriamo dei concetti di estrema importanza che verranno ripresi dai Padri conciliari nei successivi documenti del Vaticano II. Scrive il Papa: <La Chiesa gioisce nel vedere coltivate le ricchezze spirituali proprie di tale stato. La prima fra tutte, ci sembra, è la convinzione vissuta che la morte, anziché distruggere i legami di amore umano e soprannaturale contratti con il matrimonio, può perfezionarli e rafforzarli. E’ fuori dubbio che sul piano puramente giuridico e su quello delle realtà sensibili, l’istituto matrimoniale non esiste più. Ma sussiste tuttora ciò che ne costituiva l’anima, ciò che le conferiva vigore e bellezza, cioè l’amore coniugale con tutto il suo splendore ed i suoi voti di eternità.[.. .]Se il sacramento del matrimonio, simbolo dell’amore redentore di Cristo e della sua Chiesa, trasferisce agli sposi la realtà di questo amore[..], ne consegue che la vedovanza diventa, in qualche modo, il compimento di questa mutua consacrazione[..]. Ecco la grandezza della vedovanza quando è vissuta come prolungamento delle grazie del matrimonio e come preparazione del loro dischiudersi nella luce di Dio! > 
Riflettendo sulle parole del Santo Padre comprendiamo che la vedovanza si pone sulla scia del Sacramento matrimoniale, come meglio spiegherà la Costituzione pastorale Gaudium et Spes e rappresenta un modo nuovo di vivere la grazia del Sacramento, simbolo dell’ amore sponsale di Cristo e della sua Sposa che è la Chiesa.
Inoltre il Papa introduce un altro importante elemento: la dimensione escatologica dell’amore coniugale cristiano. A questo proposito leggiamo ancora nel discorso di Pio XII: <La vedovanza raffigura la vita presente della Chiesa militante, privata della visione dello Sposo celeste, al quale tuttavia resta indefettibilmente unita, avanzando verso di Lui nella fede e nella speranza, vivendo di quell’amore che la sostiene In tutte le prove, attendendo impazientemente l’adempimento definitivo delle promesse iniziali>.
La morte spezza di fatto la “comunità coniugale o familiare“, ma non spezza la “comunione”, poiché, come afferma Pio XII la morte anziché distruggere i legami d’amore contratti con il sacramento matrimoniale, li perfeziona e li rafforza nel cuore di chi resta. Fondamentale per la comprensione di questo passo è ricordare che nel matrimonio cristiano l’uomo e la donna sono chiamati a vivere una comunione d’amore sul modello della vita trinitaria: il “Noi divino” deve essere il modello del “noi umano” di quell’uomo e quella donna creati ad immagine e somiglianza di Dio e la vocazione al matrimonio è una vocazione alla reciprocità, alla donazione reciproca totale, al vivere non solo ”uno accanto all’altro”, ma “l’uno per l’altro“, come afferma Giovanni Paolo Il nella Mulieris Dignitatem del 1988.
Il matrimonio, sacramento dell’alleanza degli sposi, esprime l’amore sponsale di Dio ed il suo popolo, nell’Antico Testamento, e del Cristo con la Chiesa nel Nuovo Testamento. Infatti i coniugi, per la forza del sacramento del matrimonio, sono <il richiamo permanente di ciò che è accaduto sulla croce> (Famiiaris Consortio, 13), poiché amare è donarsi “sino alla fine”, è morire come “il chicco di grano” per dare frutto (cfr Gv 12,14) e Gesù insegna che l’amore sponsale è oblatività, servizio, attenzione e promozione dell’altro. Per questo esiste un nesso inscindibile fra Matrimonio ed Eucaristia, come lo si può evincere fra vedovanza ed Eucaristia.
La fede ci porta a credere che tutto questo non può essere interrotto dalla morte, poiché il morire, come dice S.Paolo è <andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore> (2 Cor 5,8). Ecco perché la vedovanza si schiude ad una prospettiva escatologica. cioè si apre verso le realtà ultime che non sono però solo <un traguardo posto nel futuro — come afferma il Santo Padre Giovanni Paolo Il — ma una realtà già iniziata con la venuta storica di Cristo![…]. La risurrezione dei morti attesa per la fine dei tempi, riceve una prima e decisiva attuazione già ora, nella risurrezione spirituale, obiettivo primario dell’opera di salvezza. Essa consiste nella nuova vita comunicata dal Cristo risorto, quale frutto della sua opera redentrice>. Infine, per Giovanni Paolo II le vedove cristiane sono <testimoni della risurrezione, evangelizzatrici della speranza cristiana, donando un esempio concreto e silenzioso di santità, vissuta in famiglia, nella Chiesa e nella comunità civile>  (ib.).
Come afferma il Cardinale Tettamanzi, constatiamo innanzi tutto che nei sedici documenti elaborati dal Concilio Vaticano II sono presenti solo tre passi riferiti alle vedove, brevi, ma estremamente importanti ed un altro piccolo accenno è fatto loro nel discorso di chiusura rivolto dal Santo Padre, Paolo VI, alle donne.
Nella Costituzione Dogmatica sulla Chiesa, Lumen Gentium, ritenuta il documento centrale del Concilio Vaticano II, troviamo un richiamo indiretto alla vedovanza nel V capitolo dedicato alla universale vocazione alla santità nella Chiesa ed il testo così recita: <Tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla Gerarchia, sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla santità, secondo il detto dell’Apostolo: Certo la volontà di Dio è che vi santifichiate” (1 Ts 4,3; LG 39) ed inoltre: <Essi devono con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare, vivendola, la santità che hanno ricevuta […] E’ chiaro dunque che tutti i fedeli, di qualsiasi stato o grado, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana ed alla perfezione della carità> (LG 40-40b).
Molto più tardi il Santo Padre Giovanni Paolo II affermerà nella Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte, scritta al termine del Grande Giubileo del Duemila: <Le vie della santità sono molteplici e adatte alla vocazione di ciascuno. Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, in questi anni, tanti cristiani e tra loro molti laici che si sono santificati nelle condizioni più ordinarie della vita. E’ ora di riproporre a tutti con convinzione questa “misura alta “della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione> (NMI 31).
Tornando al testo conciliare Lumen Gentium, si può concludere che tutti i cristiani, a partire dal loro stato e dal diverso compito svolto nella Chiesa, devono perseguire ideali di santità: <Un simile esempio è offerto in altro modo dalle vedove e dalle nubili, le quali possono contribuire non poco alla santità ed operosità della Chiesa> (LG 41).
A questo punto è giusto chiedersi: quale può essere la via specifica della santificazione vedovile? In quale modo la vedova può “contribuire non poco alla santità ed operosità della Chiesa”?
La via è sempre e comunque Cristo, vivere alla sua presenza, imitarne i sentimenti, donarsi fino in fondo a Dio ed ai fratelli, cercare di imitare Maria, per essere persone eucaristiche. Il nesso fra Maria e l’Eucaristia, come afferma il Santo Padre in Ecclesia de Eucaristia, è il legame che c’è fra Madre e Figlio e si attua nell’obbedienza del “Fiat”, nella condivisione della passione e nella “spiritualità del Magnificat” in cui Maria, facendo memoria delle meraviglie di Dio che rovescia i potenti dai troni ed innalza gli umili <…canta “quei cieli nuovi” e “quella terra nuova” che nell’Eucaristia trovano la loro anticipazione ed in certo senso il loro “disegno” programmatico […]. L’Eucaristia ci è data perché la nostra vita, come quella di Maria, sia tutta un Magnìficat> .
Attraverso lo spirito di obbedienza e di sacrificio che soltanto la vita eucaristica, cioè di intensa unione con Dio, può trasformare nel Magnificat. prende avvio quella metamorfosi interiore che induce la vedova a non vivere più nella dimensione del passato e del ricordo, ma ad aprirsi in modo operoso al presente, in vista del futuro in cui avrà termine questo pellegrinaggio terrestre. Inoltre non solo i coniugi cristiani, ma anche la persona vedova deve potere offrire alla Chiesa un esempio di “amore instancabile e generoso” ed è proprio questo amore, donato con generosità, il contenuto concreto del santificarsi della vedova cristiana. Amore che scaturisce da una vita eucaristica e diviene dedizione, servizio, oblazione generosa, operosità disinteressata, testimonianza di Cristo col <fulgore della loro fede, della loro speranza e carità> (LG 31 b).
Nel Decreto Apostolicam Actuositatem, sull’apostolato dei laici così leggiamo: <Questa spiritualità dei laici deve parimenti assumere una sua peculiare caratteristica dallo stato di matrimonio e di famiglia, di celibato o di vedovanza, dalla condizione di infermità, dall’attività professionale e sociale. Non lascino dunque di coltivare costantemente le qualità e le doti ricevute corrispondenti a tali condizioni, e di servirsi dei propri doni ricevuti dallo Spirito Santo>.  (AA 4)
In questo passo del decreto troviamo ribadito il principio che ogni cristiano progredisce spiritualmente all’interno della situazione esistenziale e sociale in cui è chiamato a vivere e da cui derivano i suoi doveri concreti e quotidiani. Certamente non si progredisce spiritualmente se si eludono i doveri del proprio stato, ma non bastano neppure le forze personali, perché è necessario scoprire le qualità ed i doni ricevuti dallo Spirito, per metterli a frutto con ”amore instancabile e generoso”.
Questo ci dimostra anche l’importanza di uscire dall’isolamento e di prendere parte alla vita della comunità ecclesiale, diocesana e parrocchiale, perché i carismi dello Spirito possano emergere con chiarezza proprio nei rapporti con i fratelli, poiché, come dice S. Paolo: <C’è varietà dei doni, ma un solo Spirito; c’è varietà di ministeri, ma un solo Signore; c’è varietà di operazioni, ma un solo Dio che opera tutto in tutti: a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per l’utilità comune> (1 Cor 4-7).
Occorre porsi nell’ottica che nulla ci appartiene e che tutto è per il bene di tutti. Anche lo stato vedovile, se visto come condizione di vita casta e solitaria che avvicina sempre più a Dio attraverso un amore tendente alle realtà ultime, allora la vedovanza si trasforma in un carisma, in un dono che può portare molto frutto sia nel progresso interiore personale che nell’impegno di apostolato.
L’ultimo testo conciliare in cui è possibile trovare un riferimento alla vedovanza è la Costituzione pastorale su “La Chiesa nel mondo contemporaneo” (Gaudium et Spes). Indichiamo subito il passo che riguarda la vedovanza: <La vedovanza, accettata con animo forte come continuazione della vocazione coniugale, sarà onorata da tutti> (GS 48). L’affermazione è di estrema importanza ed illumina ancor più la concezione cristiana dello stato vedovile, considerato in un certo qual modo una continuazione della vocazione coniugale. Ciò significa che non esiste una frattura incolmabile fra i due stati e che, una volta ricevuta la vocazione coniugale, questa opera, grazie al Sacramento del Matrimonio, anche quando la morte sembra aver interrotto ogni legame fisico e giuridico.
A questo proposito afferma il Card. Tettamanzi: <La vedova ha un “suo” sacramento cui riferirsi come a sorgente di grazie e di responsabilità, il sacramento del Matrimonio ricevuto ed in qualche modo perdurante. Così la vita spirituale della vedova si qualifica come un modo nuovo — corrispondente alla situazione vedovile — di vivere la grazia del sacramento del Matrimonio, di vivere cioè l’amore sponsale di Cristo per la sua Chiesa e della Chiesa per il suo Signore>.
In realtà, come aveva già espresso Pio XII nel suo Discorso del 1957, il sacramento del Matrimonio, una volta ricevuto, in un certo qual modo permane anche in vedovanza nella grazia, negli effetti e questo è innegabile, come dimostrano i figli, le responsabilità e le stesse caratteristiche spirituali che la donna, che è stata coniugata, ha assunto nel tempo. Ma permane soprattutto la grazia del sacramento ricevuto, di questo sacramento simbolo sponsale di Cristo e la sua Chiesa e viceversa.
Quindi per la vedova cristiana l’amore non si esaurisce con la morte, anzi si rafforza e si purifica, permane come permangono le anime stesse dei coniugi. E torna ancora la visione escatologica dell’amore spirituale della vedova che, come la Chiesa privata dello Sposo attende il Suo ritorno nella fede e nell’amore, così anche lei vive nell’attesa di rincontrare il suo amato bene, divenendo così donna della speranza, testimone della risurrezione. Infatti se ogni vedova vive, anche inconsapevolmente, nella tensione verso l’aldilà, ancor più la vedova cristiana non può rimanere ancorata ad una sterile memoria del coniuge, ma deve aprirsi alla vita futura non solo affettivamente, ma con la forza della fede, sapendo che questo tempo del pellegrinaggio e della sofferenza prelude a quello della beatitudine eterna.
E’ proprio un effetto della vedovanza questo proiettarsi oltre il tempo, verso la Comunione dei Santi e come afferma T. Goffi: <La vedovanza stabilisce verso il cielo un legame che gli altri ignorano>. Forse per questo motivo, la persona vedova tende a vivere in modo riservato, colloquiando con il Signore e donando tutta se stessa soprattutto all’interno della famiglia e della Chiesa.
Inoltre accettare con animo forte questo stato, come recita il testo conciliare, indica la piena adesione alla volontà di Dio e la presenza dello Spirito Santo datore del dono della fortezza. Ma la fedeltà alla memoria del coniuge, pur necessaria e nobile, perché fondata sul forte legame spirituale dell’amore “usque ad mortem et ultra” e sulla speranza del ricongiungimento futuro, non può essere il punto di arrivo, perché l’anima in tal modo corre il rischio di chiudersi in un lutto senza prospettive e così inaridire. Viceversa proprio questa tensione verso l’alto, può essere motivo di una lenta ascesi, poiché la vita si arricchisce di preghiera, la dimensione spirituale comincia a prevalere su quella materiale e l’animo si viene affamando attraverso il crogiuolo delle afflizioni e delle sofferenze. In molti casi, quando il Signore entra nell’anima, entra con la Croce e se l’anima riesce a comprendere questo, allora abbraccia la Croce, perché essa è Cristo stesso. Fortunato chi comprende che quando la Croce entra nella vita, occorre amarla e consegnarsi a lei, perché anche Cristo la amo. Ecco allora che il lutto, la sofferenza fanno spazio alla gioia che prende dimora nell’anima di chi comprende che Egli è amore: <Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui> (1 Gv 4,16). E’ fortemente consolante quando la vedova comprende che Dio non toglie se non per dare centuplicato, Lui ferisce e Lui sana le ferite, talvolta presceglie secondo piani imperscrutabili ed assegna ad alcune sue creature sentieri nuovi ed impraticati assolutamente ingiustificati per chi assiste dall’esterno, sconvolgenti per chi è chiamato, gratuiti e misericordiosi per il Suo Cuore. Afferma Sant’Agostino che il Signore sussurra alle anime: <Amatemi e mi avrete, perché non potete amarmi, se già non mi possedete> , ma il possedere Dio in realtà è l’essere posseduti da Lui, “essere prigionieri di Cristo” per usare una immagine molto suggestiva di S.Paolo. Ecco che in certi casi il Signore, proprio mediante il dolore e la morte, scioglie i legami terreni ed attraverso il suo amore “riversato nei nostri cuori” (Rm 5,5) per mezzo dello Spirito Santo, fa compiere all’anima un salto da vertigini. Avendo imparato “ad amare Dio per mezzo di Dio”(8), tutto il passato viene raccolto e consegnato a Lui e ci si scopre creatura totalmente nuova, “or ora nata“, volta al futuro, ricca di amore e di speranza. Quello stesso Spirito che infonde nell’animo la fortezza, le infonde l’amore di Dio e la persona viene trasfigurata, perde la sua identità di vedova o che altro e diviene amante di Dio, ansiosa solo di servirlo. Canta il Salmo 29: <Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia, perché io possa cantare senza posa. Signore, mio Dio, ti loderò per sempre>. Nel primo caso, quando si rimane ancorati ad una visione puramente umana della vedovanza, il lutto viene elaborato e diventa un aspetto permanente della personalità vedovile, velata di tristezza e fondamentalmente inconsolabile, nel secondo caso invece il dolore è un momento di passaggio, di purificazione e di ascesi, attraverso cui si compie il miracolo della metamorfosi. La vocazione all’alterità propria del Sacramento matrimoniale trova in questo caso come riferimento assoluto Dio, in cui ogni realtà si risolve, in cui ogni vissuto trova senso ed ogni atto di amore trova il suo inizio ed il suo compimento. Da questo fuoco ardente che il Signore accende nell’anima solitaria della vedova nasce, dal profondo, la chiamata alla consacrazione, cioè ad una vita totalmente donata a Lui a cui viene consacrato il suo cuore di sposa e di madre.
La sofferenza purifica l’anima e la Croce di Cristo appare come la strada maestra, la scala che porta a Lui, il passato si dissolve e si ricompone in un nuovo ordine interiore ed il pentimento rinnova l’anima che è invasa dal senso profondo del perdono. La chiamata della vedova trova nella Croce la vocazione più alta, vocazione a portarla in sé e negli altri, nella diaconia della carità e nel ministero della consolazione che le sono più congeniali anche perché la Croce prelude alla luce della Risurrezione. La Chiesa ha saputo leggere nel cuore delle sue figlie e le ha accolte maternamente, ritenendole un dono, segno della speranza, perché testimoni di Cristo che ha veramente vinto la morte ed è Risurrezione e Vita.
L’ultima parte del passo riportato dalla Gaudium et Spes “saranno onorate da tutti”, sembra richiamare l’incitamento di S. Paolo a Timoteo: <Onora le vedove>, ma anche il Decalogo: <Onora il padre e la madre>, come se nella persona vedova ciascuno potesse scorgere il volto della propria madre. Anche questo è un segno del perdurare degli effetti della grazia del sacramento matrimoniale ricevuto, che non devono perdersi, né sfuggire ai veri cristiani. Quindi nel verbo “onorare“ non solo si vuole intendere il sostenere spiritualmente e, se necessario, anche materialmente le persone vedove, ma anche donare loro stima ed affetto e ciò non andrà perduto perché la madre ama, la madre prega, la madre dona se stessa senza limiti.
Per concludere possiamo dire che noi vedove, portate a trascendere noi stesse ed a vivere ”nell’attesa“ dell’incontro futuro, dobbiamo guardare costantemente alle “cose di lassù” per procedere nel cammino di purificazione e di elevazione di cui la preghiera e la castità rappresentano le pietre miliari. La vedova, sotto questo profilo, è stata raffigurata come icona della Chiesa pellegrinante verso Cristo glorioso, al quale spera e brama con tutte le sue forze di unirsi nella gloria (cfr. LG 5).
Ma la Chiesa stessa guarda alle vedova come a colei che vive <l’intimità nell’ invisibile e l’attesa indefettibile degli incontri eterni…>, poiché il suo amore è totalmente spirituale e proteso all’ “Eschaton”, al tempo in cui verrà svelato il mistero. C’è quindi nella vita della vedova un contenuto ascetico di grande valore che può via via affinarsi sino a divenire ricerca ed attesa dell’unico Sposo celeste che è Cristo in cui si dissolve ogni amore passato, prende forma la nuova creatura che da sposa in Cristo, diviene sposa di Cristo, conservando nel cuore il tesoro indelebile della sponsalità e della maternità.

Infatti, nell’Esortazione apostolica postsinodale Vita Consecrata, sulla vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, Giovanni Paolo Il afferma: <Torna ad essere oggi praticata anche la consacrazione delle vedove, nota sin dai tempi apostolici (cfr. 1 Tim. 5,5.9-10; 1 Cor 7,8), nonché quella dei vedovi. Queste persone, mediante il voto di castità perpetua quale segno del Regno di Dio, consacrano la loro condizione per dedicarsi alla preghiera ed al servizio> (VC 7).
Ecco come dal dolore è fiorito un amore grande e indissolubile per la Chiesa universale, che viene espresso concretamente nella Chiesa locale, diocesana e parrocchiale, con l’offerta della preghiera costante, del servizio amorevole e del proprio umile, ma sincero apostolato. A questo proposito afferma il Card. Tettamanzi che : <Per la persona vedova vale il criterio dell’apostolato del simile con il simile. Tocca perciò alle persone vedove farsi apostole delle persone vedove, realizzando così in prima persona, la sollecitudine pastorale della Chiesa verso le vedove>, sulla scia di quanto Paolo VI aveva pronunciato nel messaggio alle vedove pellegrine a Lourdes, nel 1966: <Voi sarete dunque le apostole delle altre vedove, specialmente di quelle che non credono più, di quelle che il dolore ha allontanato da Dio e dalla Chiesa> . Ecco perché la Chiesa considera la vedovanza cristiana un dono per sé, per i tesori che implicitamente contiene e per la missione ecclesiale che può svolgere nel rapporto esistente fra la Chiesa e la società, per il messaggio di fede e di speranza che la vedova cristiana testimonia e comunica con l’intera sua esistenza.

********************************************************************************************

Novenario in onore della Madonna della Civita
Parrocchia Santa Maria Maggiore – Itri (Lt)
Predicatore P.Antonio Rungi, passionista

Ottavo giorno: martedì 17 luglio 2012, ore 19.00

Questa sera la celebrazione è dedicata a tutti i defuntu della città di Itri, particolarmente ai giovani morti prematuramente Questo è un motivo in più per riflettere su Maria Madre della vita. Elencheremo i nomi dei giovani morti e pregheremo per le anime più abbandonate della storia di Itri

Dal Vangelo
Il giudizio di Dio. I Novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso.
Le opere di bene. Il giudizio di Dio sulla carità
Maria Madre della vita: dal concepimento alla fine naturale dell’esistenza terrena.
Distacco dal mondo e dalle cose. Opere di bene.

Lumen Gentium

Il capitolo VIII della Lumen gentium VIII (nn. 52-69) ha costituito una svolta decisiva nella riflessione teologica sulla Beata Vergine Maria. Dopo un acceso dibattito, il Concilio ha modificato completamente i fondamenti di Mariologia facendo due semplici cose. In primo luogo, il Concilio non ha prodotto un documento separato su Maria, evidenziando in tal modo che la futura Mariologia non avrebbe potuto essere separata da altri importanti aspetti teologici. In secondo luogo, il Concilio ha incorporato le sue istruzioni relativamente brevi su Maria nella Costituzione Dogmatica su la Chiesa, Lumen gentium. In tal modo la Mariologia è stata collocata nel contesto del Verbo Incarnato e del Corpo Mistico, senza implicare una nuova dottrina su Maria od ostacolare la riflessione teologica (LG, 54). Infatti, leggendo questo ottavo capitolo, si sarebbe potuto pensare che la svolta decisiva della Mariologia potesse dare avvio a nuove e ricche intuizioni, che però non vennero immediatamente, facendo sì che l’interesse per la Mariologia scemasse per un certo periodo di tempo. Sebbene Paolo VI abbia cercato di risvegliare una comprensione più profonda con la sua Esortazione Apostolica Marialis cultus (2 febbraio 1974) e altri scritti, la Chiesa ha dovuto attendere quasi un quarto di secolo prima che la Lettera Enciclica Redemptoris mater (25 marzo 1987) riaccendesse l’interesse dei teologi per la Mariologia.

La trattazione della figura di Maria nella Lumen gentium piuttosto che in un documento separato, specificamente dedicato alla Mariologia, è avvenuta soltanto dopo molti dibattiti in seno al Concilio. Quello che poi divenne il capitolo VIII della Lumen gentium nacque inizialmente come una pletora di suggerimenti: dalla dichiarazione di un nuovo dogma di Maria quale Mediatrice di tutte le grazie all’idea di non menzionarla affatto. Spesso si osserva che il capitolo VIII della Lumen gentium è un compromesso fra queste due soluzioni estreme. Tuttavia, quest’osservazione trascura il fatto che alla fine quella del Concilio non fu la concessione di una verità teologica vis-à-vis, ma la decisione di enfatizzare in maniera decisa il ruolo di Maria nella rivelazione di Gesù Cristo. Il Concilio sottolineò chiaramente che non intendeva né offrire una completa esposizione dottrinale di aspetti mariologici né risolvere le questioni che i teologi si ponevano allora (LG, n. 54). E’ opportuno ricordare che il capitolo VIII della Lumen gentium non è affatto un’esposizione debole su Maria e ancor meno un tentativo di dare chiarimenti in campo mariologico. .Il capitolo VIII della Lumen gentium VIII è piuttosto, secondo Giovanni Paolo II, “in un certo senso una magna charta di Mariologia nella nostra era” (Discorso in occasione dell’Udienza Generale del 2 maggio 1979). L’enfasi posta dal Concilio sul ruolo di Maria nella Chiesa e nella storia della salvezza (passata, presente e futura) mediante il suo inserimento nella Lumen gentium è l’impulso a una speculazione teologica innovativa. Il Concilio ha cercato di risvegliare la Mariologia concentrandosi sul ruolo di Maria quale parte integrante di quello del Redentore, di rifondare il suo ruolo significativo nella missione della Chiesa e di trasformare una devozione culturale, in un certo qual modo passiva, in un’attiva condotta esemplare.

Quindi, non sorprende che il capitolo VIII della Lumen gentium non contenga un nuovo insegnamento su Maria, ma riassuma quanto la Chiesa ha sostenuto nel corso dei secoli. Sebbene questo compendio sia divenuto più celebre per quello che ha omesso che per quello che ha dichiarato, riveste un’importanza notevole. Maria è situata nel mistero della salvezza (Lumen gentium, n.52). E’ “riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro della Chiesa” (LG, n. 53). Il Vecchio e il Nuovo Testamento attestano il suo ruolo nell’economia della salvezza (LG, n. 55). Per volere di Dio, Maria nasce libera dal peccato originale; la sua libera cooperazione al piano salvifico di Dio la rende “madre dei viventi” (LG, n. 56). Maria è al fianco del Signore durante la sua nascita, il suo ministero pubblico e la sua crocifissione. Resta con i suoi Apostoli fino a quando non riceve lo Spirito Santo e viene infine assunta in cielo (LG, nn.57-59). Il ruolo di Maria quale madre degli uomini e madre nell’ordine della grazia deriva dal suo ruolo di madre del Mediatore e Redentore, Gesù Cristo. La sua intercessione prosegue ora nei cieli e quindi ella “è invocata nella Chiesa con i titoli di avvocata, ausiliatrice, soccorritrice, mediatrice” (LG, nn. 60-62). Infatti, è la sua maternità che la rende esemplare nella Chiesa ed è a lei che i membri della Chiesa si rivolgono quale “modello di virtù” mentre progrediscono nella fede, nella speranza e nella carità (LG, nn. 63-65). “Per la grazia di Dio, Maria è stata esaltata, dopo suo figlio, al di sopra di tutti gli angeli e gli uomini” (LG, n.66) Per questo motivo, si è sviluppato in suo onore un culto che va promosso, evitando però le esagerazioni affinché si continui a promuovere il suo ruolo corretto di intercessione “a gloria della santissima e indivisibile Trinità ” (LG, nn. 66-69). Di conseguenza, il capitolo VIII della Lumen gentium ripete quanto la Chiesa ha sempre creduto, ossia che l’elezione di Maria, la sua libera cooperazione e la sua intercessione riecheggiano la più grande gloria di Dio.

Poiché Dio si è rivelato pienamente al suo Popolo mediante Gesù Cristo e la sua Chiesa, è perfettamente sensato che il ruolo di Maria nel disegno salvifico di Dio venga inserito in una Costituzione Dogmatica che proclama Cristo e la sua Chiesa quale luce delle nazioni. Alla fine del Concilio i teologi ebbero il compito di elaborare quel ruolo. Purtroppo, i teologi furono lenti a svolgerlo. Mentre dopo il Concilio fiorirono studi cristologici, soteriologici ed ecclesiologici, i teologi non si affrettarono a evidenziare il ruolo partecipativo di Maria alla persona di Gesù Cristo, alle sue attività redentrici, alla sua Chiesa. Negli anni immediatamente successivi al Concilio, l’attenzione fu rivolta ad altri temi e quindi la Mariologia e la devozione mariana conobbero un momento di stasi. Con il dovuto riguardo per i progressi compiuti dal Concilio sia Paolo VI sia Giovanni Paolo II hanno cercato di rafforzare il ruolo della Beata Vergine Maria nello studio e nella devozione.

Marialis Cultus

Se possiamo affermare che l’insegnamento del Concilio nel capitolo VIII della Lumen gentium non ha portato a una rinascita degli studi mariani, dobbiamo anche dire che neanche il tentativo compiuto da Paolo VI per riaccendere l’interesse su questo argomento non ha sortito esiti positivi. Nonostante Paolo VI abbia invocato Maria quale “Madre della Chiesa” nella sua Lettera Enciclica Mense maio (29 aprile 1965), l’abbia invocata di nuovo quale Madre della Chiesa nella sua Lettera Enciclica Christi matri (15 settembre 1966), abbia esteso il suo insegnamento su Maria quale Madre della Chiesa nella sua Esortazione Apostolica Signum magnum (13 maggio 1967), abbia esortato a una devozione ancor più profonda al Rosario nella sua Esortazione Apostolica, Recurrens mensis october (7 ottobre 1969) e spesso abbia predicato su Nostra Signora e l’abbia menzionata in maniera prominente in quasi tutti i documenti da lui pubblicati nel corso del proprio Pontificato, la devozione e gli scritti mariani dopo il Concilio diminuirono. I cattolici si allarmarono per il cambiamento percepito a proposito dell’interpretazione della Madre Santa e molte Conferenze Episcopali nazionali reagirono a quella confusione. Per esempio, negli Stati Uniti la Conferenza Episcopale, il 21 novembre 1973, pubblicò il documento “Behold Your Mother: Woman of Faith”.

L’anno seguente Paolo VI affrontò lo stesso problema in Marialis cultus e un anno dopo scrisse la sua “Lettera al Cardinale Suenens” in occasione del Congresso Mariano del 1975, nota come “The Holy Spirit and Mary” (Lo Spirito Santo e Maria) (13 maggio 1975). In entrambi i documenti, Paolo VI offrì contributi importanti all’interpretazione della figura di Maria nella Chiesa, anche se i teologi li hanno ignorati. La Marialis cultus è suddivisa in tre parti. Nella prima parte Paolo VI descrive la prominenza di Maria nella nuova vita liturgica della Chiesa (nn. 1-23). Nella seconda, il Papa sottolinea i temi relativi al rinnovamento della devozione mariana alla luce della tradizione e delle necessità del nostro tempo (nn.24-39). Nella terza, Paolo VI dedica le sue osservazioni a due importanti forme di devozione mariana, l’Angelus e il Rosario (nn. 40-55). Conclude con l’esposizione del valore pastorale e teologico della devozione a Maria (nn. 56-58).

In questa sede ci occupiamo della seconda parte. Paolo VI sostiene che “gli esercizi di pietà verso la Vergine Maria esprimono chiaramente la nota trinitaria e cristologica, che in essi è intrinseca ed essenziale” (n. 25). Tutte le espressioni di devozione a Maria dovrebbero essere orientate a suo Figlio, cosicché possiamo acquisire una “conoscenza del figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo ” (Ef 4,13). Parimenti, la devozione a Maria, nella cui vita terrena lo Spirito Santo è molto presente, ci conduce a una comprensione più profonda del ruolo di quest’ultimo nella storia della salvezza (n.26). Un’ulteriore riflessione teologica sul ruolo dello Spirito Santo nella storia della salvezza e un esame del rapporto fra lo Spirito Santo e la Beata Vergine producono “una riflessione più profonda sulle verità di fede” da cui fluisce “una pietà più intensamente vissuta” (n.27). Paolo VI si rifà all’insegnamento del Vaticano II, e precisamente a quello sul popolo di Dio. La natura ecclesiologica del popolo eletto di Dio conduce all’idea di fraternità sotto l’egida di Maria, nostra Madre. Così anche la sollecitudine materna di Maria ispira l’amore che la Chiesa prova per tutte le persone, in particolare i poveri e i deboli. “La venerazione rivolta alla Beata Vergine rende esplicito il suo intrinseco contenuto ecclesiologico: questo vorrà dire avvalersi di una forza capace di rinnovare salutarmente forme e testi” (n. 28).

Per operare questo rinnovamento, Paolo VI emana quattro direttive: biblica, liturgica, ecumenica e antropologica, e raccomanda che ogni forma di culto cristiano venga permeato da elementi biblici, incluso il materiale devozionale. “Richiede, infatti, che dalla Bibbia prendano termini e ispirazioni le formule di preghiera e le composizioni destinate al canto; ed esige, soprattutto, che il culto della Vergine sia permeato dai grandi temi del messaggio cristiano ” (n. 30).

Paolo VI raccomanda che tutte le devozioni mariane si armonizzino con le celebrazioni e le stagioni liturgiche. La devozione non deve mai offuscare il culto o mischiarsi impropriamente con esso. Quando i due elementi restano correttamente distinti, il valore di ognuno di loro emerge con chiarezza (n.31). Paolo VI raccomanda anche che la devozione mariana sia molto sollecita nel promuovere uno spirito ecumenico. Da una parte, poiché la devozione alla Madre del Signore è condivisa da tutti coloro che invocano il Suo Figlio, la pietà mariana è un tema di tutti i cristiani. Dall’altra, bisogna stare attenti a evitare qualsiasi esagerazione, cosicché la natura autentica del carattere ecclesiale di Maria risulti evidente a tutti i cristiani (nn.32-33). Infine, “nel culto della Vergine si devono tenere in attenta considerazione anche le acquisizioni sicure e comprovate delle scienze umane”. E’ necessario ricorrere alla figura di Maria quale esempio per tutti nella sua accettazione della volontà di Dio. Il fiat di Maria trascende il tempo e la cultura. Il peso della devozione mariana non dovrebbe poggiare tanto sui dettagli delle concrete condizioni di vita di Maria, quanto sulla sua capacità di compiere la missione affidatale da Dio per ispirazione dello Spirito Santo (nn.35-36).

Nonostante Paolo VI abbia enfatizzato la guida dello Spirito Santo in Marialis cultus, ne “Lo Spirito Santo e Maria” e in altri suoi scritti, durante la sua vita la Mariologia non ha fatto progressi. Infatti, è stato come se lo Spirito Santo, che aveva offuscato Maria nella concezione del Verbo Incarnato, lo avesse fatto anche metaforicamente nella concezione dei teologi immediatamente dopo il Concilio e nel corso del Pontificato di Paolo VI.

Lo Spirito Santo ha concesso però a Paolo VI un successore che ha rivitalizzato l’opera avviata dal Concilio di celebrazione del ruolo di Maria nella Chiesa e nella storia della salvezza.

Redemptoris Mater

Giovanni Paolo II, durante il suo Pontificato, ha promosso il ritorno della riflessione e della devozione mariana con molte cose, dalla grande “M” blu sul suo stemma all’adozione del motto “Totus Tuus”, ma soprattutto con la sua Lettera Enciclica Redemptoris mater. Quest’ultima ha risvegliato il gigante dormiente della devozione mariana fra i membri del Popolo di Dio, che hanno cercato di rifondare la loro devozione personale e formale alla Beata Vergine Maria alla luce dei mutamenti liturgici sulla scia del Concilio. Questo documento ha suscitato l’interesse dei teologi, che fino ad allora non avevano prestato alcuna attenzione significativa all’ultima parte della Lumen gentium. Ha portato a compimento l’impresa avviata dal capitolo VIII della Lumen gentium: offrire un’immagine di Maria in relazione a suo Figlio e alla sua Chiesa. La Redemptoris mater è suddivisa in tre parti principali. Nella prima, Giovanni Paolo II, presenta Maria nel mistero di Cristo (nn. 1-24). Nella seconda, la descrive come Madre di Dio che si trova al centro della Chiesa che peregrina sulla terra (nn.24-37). Nella terza, affronta l’aspetto della mediazione materna di Maria (nn.38-50). Giovanni Paolo II conclude con la preghiera che la Madre del Redentore possa venire in nostro aiuto (nn.51-52).

Nell’Annunciazione, troviamo Maria “piena di grazia”. E’ piena di grazia in virtù della sua elezione divina, dell’Incarnazione che porta in grembo e del suo fiat a un cammino di fede paragonabile a quello di Abramo. Proprio come Abramo credette e visse sempre rivolto a Dio, così Maria viaggia per recarsi da Elisabetta, a Betlemme, al tempio per la presentazione, a Cana e infine presso la Croce. “Nell’espressione Beata colei che ha creduto possiamo trovare quasi una chiave che ci schiude l’intima realtà di Maria. Di colei che l’angelo ha salutato come piena di grazia. Se come piena di grazia ella è stata eternamente presente nel mistero di Cristo, mediante la fede ne divenne partecipe in tutta l’estensione del suo itinerario terreno” (n. 19) . Giovanni Paolo II presta una particolare attenzione al racconto di Giovanni delle nozze di Cana, in cui Maria fa da intermediario fra suo Figlio e le necessità delle persone, dicendo loro: “Fate quello che vi dirà ” (Gv 2,5). Da questo primo segno, Maria sta dietro al Figlio, perfino presso la Croce. Inoltre, “nell’economia della grazia, attuata sotto l’azione dello Spirito Santo, c’è una singolare corrispondenza tra il momento dell’incarnazione del Verbo e quello della nascita della Chiesa. La persona che unisce questi due momenti è Maria: Maria a Nazaret e Maria nel cenacolo di Gerusalemme. In entrambi i casi la sua presenza discreta, ma essenziale, indica la via della nascita dello Spirito” (n. 24).

La Chiesa, il popolo pellegrino di Dio, “ha avanzato nel cammino della fede e ha conservato fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce” (n.4 e LG, n.58). Maria era presente il giorno della Pentecoste quale testimone del mistero di Cristo, e rimane presente nel mistero della Chiesa che anela a incontrare il Signore il giorno in cui verrà. Non si può comprendere questo cammino del popolo pellegrino di Dio senza l’esempio di Maria. “La Vergine madre è costantemente presente in questo cammino di fede del Popolo di Dio verso la luce. Lo dimostra in modo speciale il cantico del Magnificat, che, sgorgato dal profondo della fede di Maria nella visitazione, non cessa nei secoli di vibrare nel cuore della Chiesa ” (35). Il monologo di Maria nelle parole del Magnificat ispira costantemente l’opzione preferenziale della Chiesa per i poveri e per gli umili. La semplicità della vita di Maria, il suo fiat e la sua dedizione incondizionata alla volontà di Dio ricordano con forza alla Chiesa la sua missione. Alla fine del secondo millennio cristiano, la Chiesa deve rinnovare il proprio impegno nella propria missione verso i poveri, una missione intimamente legata alla sua interpretazione della libertà e della liberazione. Per quanto riguarda la missione ecclesiale, Giovanni Paolo II cita l’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede su “Libertà cristiana e Liberazione” del 22 marzo 1986: “Totalmente dipendente da Dio e tutta orientata verso di lui per lo slancio della sua fede, Maria, accanto a suo Figlio, è l’icona più perfetta della libertà e della liberazione dell’umanità e del cosmo. E’ a lei che la Chiesa, di cui ella è madre e modello, deve guardare per comprendere il senso della propria missione nella sua pienezza”.

Giovanni Paolo II dedica la terza parte della Redemptoris mater alla mediazione eterna di Maria. Rammentando la prima Lettera di Timoteo, versetto 2, 5-6: “Non c’è che un solo Dio, uno solo anche è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo, che per tutti ha dato se stesso quale riscatto” e citando liberamente dalla Lumen gentium, n.60, il Papa ci ricorda che “la mediazione di Maria è strettamente legata alla sua maternità, possiede un carattere specificatamente materno, che la distingue da quello delle altre creature che, in vario modo sempre subordinato, partecipano all’unica mediazione di Cristo, rimanendo anche la sua una mediazione partecipata” (n.38). Come due facce di una stessa moneta, Maria è sia un’unica madre sia un’unica mediatrice. Maria è, di certo, redenta da suo Figlio, sebbene si trovi con Lui nel momento dell’atto redentore sulla Croce, perché reca già i primi frutti della Redenzione nell’Immacolata Concezione. E’ presso la Croce che si manifesta il nostro rapporto filiale con Maria. “Si scorge qui il reale valore delle parole dette da Gesù a sua madre nell’ora della croce: Ecco la tua madre (Gv 19, 26-27)….E’ una maternità nell’ordine della grazia, perché implora il dono dello Spirito Santo che suscita i nuovi figli di Dio, redenti mediante il sacrificio di Cristo: quello Spirito che insieme alla Chiesa anche Maria ha ricevuto nel giorno della Pentecoste” (n. 44) E’ dunque giusto e opportuno rivolgere la nostra devozione filiale alla Madre del Redentore in tutte le nostre necessità.

La Redemptoris mater suscita entusiasmo perché contiene una più profonda consapevolezza del ruolo di Maria nel mistero della nostra redenzione. Si tratta sia della realizzazione dell’impresa avviata dal capitolo VIII della Lumen gentium sia di un’esortazione a studiare la Madre del Redentore e ad esserle ancor più fedeli. Con la Redemptoris mater Giovanni Paolo II ha posto una pietra miliare nella Mariologia e questa Enciclica è destinata a essere la condizione sine qua non della Mariologia in futuro. Con questa profonda Enciclica, Giovanni Paolo II ha riacceso la scintilla della Mariologia e continua a illuminare e a promuovere la comprensione dottrinale mariana, in particolare nelle udienze generali. Dal settembre 1995 fino al novembre 1997, in occasione di udienze generali, il Papa ha tenuto settanta discorsi sulla Beata Vergine Maria. Inoltre, decine di teologi si sono posti interrogativi sul ruolo speciale svolto da Maria nella vita e nella missione di suo Figlio e della Chiesa. Il terzo millennio del cristianesimo promette di essere ricco di riflessione e di devozione mariane in quanto la Chiesa progredisce nella sua comprensione della Madre del Redentore e nella sua devozione verso di lei.

 

 

Settimo Giorno: 16 luglio 2012, ore 19

Questa sera la celebrazione è dedicata a tutti gli infermi della città di Itri. Durante la santa messa amministreremo il sacramento dell’Unzione degli Infermi a quanti vorranno riceverlo. Questo è un motivo in più per riflettere su Maria Salute degli Infermi. La giornata odierna coincide con una festa importante in onore della Madonna, quella del Carmine. Soprattutto nel Meridione d’Italia questa festa è molto sentita e celebrata ovunque

MARIA VERGINE  MADRE E MAESTRA SPIRITUALE

I fratelli e le sorelle dell’ordine Carmelitano, sia quelli che praticano l’antica osservanza sia quelli che seguono la riforma operata da santa Teresa di Gesù († 1582), si adoperarono sempre molto affinché si diffondessero ovunque e in profondità l’amore per l’orazione, l’impegno per conseguire la perfezione evangelica e il culto verso la Madre di Cristo. Venerano soprattutto la beata Vergine sotto il titolo «del Monte Carmelo»; mentre compiono il viaggio verso «il santo monte, Cristo Gesù» (Colletta), li custodisce come Madre amorevolissima, li protegge come patrona indefettibile, li accompagna come sorella fedele. Le Carmelitane, meditando assiduamente tutto il mistero della beata Vergine Maria, si soffermano volentieri a contemplare la Vergine o intenta all’orazione o nella sua vita nascosta o mentre riflette inferiormente sulle parole del Signore o mentre si dedica alle opere di carità. I fratelli e le sorelle del carmelo hanno sempre riconosciuto la beata Vergine come «madre e maestra spirituale» e «con la forza del suo amore conduce alla carità perfetta» (Prefazio), i figli che «continua a generare con la Chiesa» a Dio (Prefazio). Nel formulario la Madonna viene celebrata come: – Maestra che, custodendo nel suo cuore le parole di Gesù (cfr Alleluia, Antifona alla Comunione, Le 2,19.51), ci «insegna con il suo esempio» (Orazione sulle offerte) «il timore di Dio» (Antifona d’ingresso, cfr Sal 33 [34], 12); maestra che noi supplici vediamo come «modello della vita evangelica» (Prefazio) e dalla quale impariamo ad amare Dio «sopra ogni cosa con il suo cuore», a «contemplare con il suo spirito il Verbo», a dedicarci «con la stessa sollecitudine» ai fratelli sofferenti (Prefazio); – Madre, che ci invita soavemente a salire «sul monte del Signore» (Antifona d’ingresso; cfr Is 2,3) che e il Cristo stesso (cfr Colletta); madre, per mezzo della quale la sapienza dice: «Chi trova me, trova la vita» (Pro 8,34; cfr Prima Lettura, Pro 8,17-21.34-35); madre che, avendoci ricevuti come figli presso la croce del Signore (cfr Vangelo, Gv 19,25-27), ci «protegge con il suo aiuto», (Orazione sulle offerte) e ci assiste con la sua «intercessione materna» (Colletta). Questa messa é stata tratta, con alcune variazioni, dal Proprio delle messe dell’Ordine dei carmelitani Scalzi delle beata Vergine del Monte Carmelo, Curia Generalizia, Roma 1973, pp. 51-52.90.
Il 16 luglio ricorre una festa mariana molto importante nella Tradizione della Chiesa: la Madonna del Carmelo, una delle devozioni più antiche e più amate dalla cristianità, legata alla storia e ai valori spirituali dell’Ordine dei frati della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo (Carmelitani). La festa liturgica fu istituita per commemorare l’apparizione del 16 luglio 1251 a san Simone Stock, all’epoca priore generale dell’ordine carmelitano, durante la quale la Madonna gli consegnò uno scapolare (dal latino scapula, spalla) in tessuto, rivelandogli notevoli privilegi connessi al suo culto.

Nel Primo Libro dei Re dell’Antico Testamento si racconta che il profeta Elia, che raccolse una comunità di uomini proprio sul monte Carmelo (in aramaico «giardino»), operò in difesa della purezza della fede in Dio, vincendo una sfida contro i sacerdoti del dio Baal. Qui, in seguito, si stabilirono delle comunità monastiche cristiane. I crociati, nell’XI secolo, trovarono in questo luogo dei religiosi, probabilmente di rito maronita, che si definivano eredi dei discepoli del profeta Elia e seguivano la regola di san Basilio. Nel 1154 circa si ritirò sul monte il nobile francese Bertoldo, giunto in Palestina con il cugino Aimerio di Limoges, patriarca di Antiochia, e venne deciso di riunire gli eremiti a vita cenobitica. I religiosi edificarono una chiesetta in mezzo alle loro celle, dedicandola alla Vergine e presero il nome di Fratelli di Santa Maria del Monte Carmelo. Il Carmelo acquisì, in tal modo, i suoi due elementi caratterizzanti: il riferimento ad Elia ed il legame a Maria Santissima.

Il Monte Carmelo, dove la Tradizione afferma che qui la sacra Famiglia sostò tornando dall’Egitto, è una catena montuosa, che si trova nell’Alta Galilea, una regione dello Stato di Israele e che si sviluppa in direzione nordovest-sudest da Haifa a Jenin. Fra il 1207 e il 1209, il patriarca latino di Gerusalemme (che allora aveva sede a San Giovanni d’Acri), Alberto di Vercelli, redasse per gli eremiti del Monte Carmelo i primi statuti (la cosiddetta regola primitiva o formula vitae). I Carmelitani non hanno mai riconosciuto a nessuno il titolo di fondatore, rimanendo fedeli al modello che vedeva nel profeta Elia uno dei padri della vita monastica.

La regola, che prescriveva veglie notturne, digiuno, astinenza rigorosi, la pratica della povertà e del silenzio, venne approvata il 30 gennaio 1226 da papa Onorio III con la bolla Ut vivendi normam. A causa delle incursioni dei saraceni, intorno al 1235, i frati dovettero abbandonare l’Oriente per stabilirsi in Europa e il loro primo convento trovò dimora a Messina, in località Ritiro. Le notizie sulla vita di san Simone Stock (Aylesford, 1165 circa – Bordeaux, 16 maggio 1265) sono scarse. Dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, maturò la decisione di entrare fra i Carmelitani e, completati gli studi a Roma, venne ordinato sacerdote. Intorno al 1247, quando aveva già 82 anni, venne scelto come sesto priore generale dell’Ordine. Si adoperò per riformare la regola dei Carmelitani, facendone un ordine mendicante: papa Innocenzo IV, nel 1251, approvò la nuova regola e garantì all’Ordine anche la particolare protezione da parte della Santa Sede.

Proprio a san Simone Stock, che propagò la devozione della Madonna del Carmelo e compose per Lei un bellissimo inno, il Flos Carmeli, la Madonna assicurò che a quanti si fossero spenti indossando lo scapolare sarebbero stati liberati dalle pene del Purgatorio, affermando: «Questo è il privilegio per te e per i tuoi: chiunque morirà rivestendolo, sarà salvo». La consacrazione alla Madonna, mediante lo scapolare, si traduce anzitutto nello sforzo di imitarla, almeno negli intenti, a fare ogni cosa come Lei l’avrebbe compiuta.

La devozione alla Madonna della Civita ha stretto rapporto con la Madonna del Monte Carmelo, sia perché la Madonna è stata rinvenuta su un monte e sia perché due monaci basiliani la portarono in Italia, fino a giungere, dopo 54 giorni di traversata in mare, prima a Messina e poi per un disegno misterioso sulla montagna di Itri

***********************************************************************************************

 

 

Novenario in onore della Madonna della Civita
Parrocchia Santa Maria Maggiore – Itri (Lt)
Predicatore P.Antonio Rungi, passionista

Sesto giorno: domenica 15 luglio 2012, ore 19.00

Questa sera la celebrazione è dedicata a tutti gli sposi che compiono 25 o 50 anni ed oltre di matrimonio e a tutti coloro che festeggiamo in questi giorni l’anniversario delle loro nozze, insieme ai loro figli, nipoti e pronipoti, parenti e conoscenti. Questo è un motivo in più per riflettere su Maria, Madre e Regina delle famiglie.

Partiamo dalla Parola di Dio: Prima Lettura. Dal libro del profeta Osèa

Dal Vangelo secondo Marco

Il Papa Giovanni Paolo II ha avuto una ispirazione meravigliosa dallo Spirito Santo nell’inserire nelle Litanie Lauretane l’invocazione “Regina della famiglia” che ha collocato dopo “Regina del Santo Rosario” e prima di “Regina della pace”. Così ora le invocazioni delle Litanie sono 50, come 50 sono le Ave Maria della corona del Rosario.
1.Il Rosario è la preghiera della famiglia e per la famiglia. La famiglia che prega unita rimane unita.
Pio XII afferma: “Se trovate nella famiglia figli irriverenti e ribelli, se trovate litigi e rancori… sappiate che è perché non si prega. Dio è estraneo, si fa a meno di Lui” e si calpestano i suoi comandamenti. Ivi, purtroppo, non si prega, non si recita il S. Rosario.
S. Maria Goretti, la dodicenne martire della purezza (nel 1902), nella terribile lotta contro di lei dell’assassino Alessandro Serenelli, ella prende la corona che portava sempre in tasca, conforme all’insegnamento della sua mamma, la stringe nelle sue mani mentre lotta per difendere la sua castità. Quella corona del Rosario alla fine risultò tutta lacerata e spezzettata, ma lei ha riportato vittoria ed è morta martire.
Il suo uccisore Serenelli, dopo aver fatto i suoi anni di carcere, è accolto nella famiglia religiosa dei Frati Cappuccini, insieme ai quali recita ogni giorno il Santo Rosario e tante altre preghiere. Vive molto religiosamente e fa una morte santa.

2. La Madonna vuole aiutare ogni famiglia a realizzare i tre grandi beni che la renderanno felice, come afferma S. Agostino: il bene della fedeltà, il bene dei figli, il bene del sacramento.
a) Il bene della fedeltà: Cari sposi, amatevi tanto nel Signore, e sarete fedeli l’uno all’altro e vivrete felici. Imitate le famiglie di cui sto parlandovi.
Un grande scrittore e poeta, dirigente d’azienda e profondamente cristiano, scrive: “Io devo ringraziare ogni giorno la Provvidenza per avermi fatto incontrare e cogliere un fiore oggi rarissimo, direi quasi introvabile. La mia penna non riuscirà mai a descrivere la bellezza, la bontà, la semplicità, la gentilezza, la ricchezza d’animo di colei che sarebbe diventata mia moglie, la madre dei miei 6 figli. Un’aurora che t’incanta col suo sorriso, un fiore che ti conquista col suo profumo, un alito di vento che ti accarezza, un panorama stupendo che ti riposa, un sogno dolcissimo che si avvera. Con lei posso ben dire che la vita è una cosa meravigliosa. La mia luna di miele ha avuto un inizio, ma non avrà mai una fine. Da quando il suo sole illuminò la mia stanza, per me è sempre primavera. Io spero e credo che noi rimarremo uniti per l’eternità. Le nostre strade sono una sola strada, i nostri cuori sono un solo cuore, le nostre vite sono una sola vita. Col matrimonio io lasciavo una famiglia numerosa per farmene un’altra ugualmente stupenda” (Clorindo Grandi, “Dove termina l’orizzonte?”, Edit. Ponte nuovo, BO.).
 
Mai il divorzio che nuoce moltissimo ai figliuoli. Mai la turpe infedeltà e le orribili sconcezze. Mai lasciare il proprio coniuge e andare a convivere con un’altra persona.
Gesù afferma: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie. Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separerà. … Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio” (Matteo 19,3). “E chiunque sposa una ripudiata commette adulterio” (Matteo 5, 28).
Quanti danni ai figli! Negli Stati Uniti d’America, il 90% della delinquenza giovanile è costituito da giovani di famiglie divise” (P. Daniel Ange).
b) Il bene dei figli. Accoglieteli volentieri come un dono del Signore e come una benedizione della Madonna. Educateli religiosamente con l’esempio e con la parola. Recitate insieme ogni giorno il Santo Rosario e le altre preghiere. Sempre, ogni domenica, alla S. Messa.
Ecco la prima esperienza e il primo insegnamento disastroso del famoso psicologo e pediatra americano Benjamin Spock, in un suo libro, apparso nel 1946, e che fece epoca: “Il bambino come si educa e come si alleva”. Ivi si legge: Il bambino impara a vivere semplicemente col vivere: lasciatelo libero, faccia le sue esperienze; scoprirà da sé il perché delle cose; liberatelo dalla paura, dall’imposizione di tante regole; se oggi è lui a scoprire ciò che è giusto, domani sarà lui che vorrà battersi spontaneamente per la giustizia”.
Ma dopo vent’anni, riconosce il pieno fallimento delle suddette esperienze e scrive: “I bambini hanno, sì, bisogno di sentirsi amati ma, più, di sentirsi guidati dall’autorità dei loro genitori: hanno bisogno più di disciplina che di permissività. Darle loro tutte vinte o tutte facili è controproducente; la correzione e la punizione possono essere di grande aiuto nello sviluppo del bambino” (“Avvenire”, 20-IX-2000, pag. 1).
Mai, mai il delitto orribile dell’aborto che è una vera uccisione del proprio figlio, il quale sùbito, appena avvenuta la fecondazione, è un vero essere umano tutto programmato. Tutti gli scienziati di fama internazionale affermano che “gli embrioni” sono veri esseri umani, sono nostri fratellini. Il sopprimerli con l’aborto è un uccidere le persone le più innocenti.
Madre Teresa afferma: “Il più terribile distruttore della pace è l’aborto… Poiché se una madre può uccidere il proprio figlio, che cosa mi impedisce di uccidere voi e voi di uccidere me?”
Attenzione. Eleggere al Parlamento persone o gruppi politici che vogliono fare o mantenere delle leggi abortiste o altre leggi perverse è un peccato estremamente grave.
Esiste il grande dovere di eleggere come Senatori e Deputati coloro che sicuramente non vogliono leggi abortiste o altre leggi contro i Comandamenti di Dio e sono decisi ad abrogare quelle leggi assassine già esistenti. Rifletti: in 20 anni sono stai uccisi con l’aborto 1 miliardo di bimbi (Giovanni Paolo II).
c) Il bene del Sacramento. Lo Spirito Santo afferma nel Concilio Vaticano II che soltanto il matrimonio religioso, amministrato dal Sacerdote in nome di Cristo Dio, santifica gli sposi e il loro amore, il quale viene assunto sull’amore divino, e perfeziona questo amore, e rafforza la loro unità indissolubile e li aiuta a raggiungere la santità nella vita coniugale, nell’accettazione e nell’educazione della prole (Cfr. Gaudium et spes , 48, e Lumen gentium, 11). Questi benefici non li hanno coloro che vivono in “convivenza” ossia come sposi senza essere sposati religiosamente, anzi costoro vivono nel peccato grave di adulterio, dando uno scandalo enorme agli altri e vivono nel pericolo di dannazione eterna. Preghiamo la Regina della famiglia perché costoro si convertano e vivano in Grazia cioè nel Cuore della Madonna e nel Cuore di Gesù.
Nella Bibbia ci sono innumerevoli benedizioni per i figli che amano, rispettano e aiutano i loro genitori.
 
Maria, regina della famiglia
  
Icona di ogni madre

Maria viene in soccorso della famiglia umana caduta in peccato. «Il Padre delle misericordie ha voluto che l’accettazione da parte della predestinata madre precedesse l’incarnazione, perché così, come una donna aveva contribuito a dare la morte, una donna contribuisse a dare la vita. Ciò vale in modo straordinario della madre di Gesù, la quale ha dato al mondo la vita stessa che tutto rinnova […]. Maria non fu strumento meramente passivo nelle mani di Dio, ma cooperò alla salvezza dell’uomo con libera fede e obbedienza» (LG 56 ).

Icona della madre di famiglia, Maria si reca in fretta a salutare e a servire Elisabetta; a Cana di Galilea, manifestando al figlio con delicata implorazione una realtà temporale, ella ottiene anche un effetto di grazia: che Gesù, compiendo il primo dei suoi “segni”, confermi i discepoli nella fede in lui; nel cenacolo della Pentecoste implora con le sue preghiere il dono dello Spirito.

Un flash della Marialis cultus sulle nozze di Cana qui poste a simbolo di ogni famiglia umana: «Ulteriore argomento del valore pastorale della devozione alla Vergine nel condurre gli uomini a Cristo, siano le parole stesse che ella rivolse ai servitori delle nozze di Cana: “Fate quello che Egli vi dirà”; parole, in apparenza, limitate al desiderio di porre rimedio a un disagio conviviale, ma, nella prospettiva del quarto Evangelo, sono come una voce in cui sembra riecheggiare la formula usata dal Popolo di Israele per sancire l’alleanza sinaitica, o per rinnovarne gli impegni, e sono anche una voce che mirabilmente si accorda con quella del Padre nella teofania del monte Tabor: “Ascoltatelo!”» (n. 57).

   
+++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++

 

Quinto giorno: 14 luglio 2012, ore 19.00

Questa sera la celebrazione è dedicata a tutti i ragazzi e i giovani che hanno ricevuto la Cresima quest’anno,  con la presenza dei loro padrini, madrine, genitori, parenti ed amici che hanno condiviso con loro il giorno di festa. Anche le catechiste che ne hanno preparato la formazione spirituale e dottrinale entrano tra le preghiere di questa sera dedicata alla Madonna “Donna dello Spirito e in costante preghiera”.

Commento alla parola di Dio della XV domenica del tempo ordinario

Profezia, conversione, spiritualità

La parola di Papa Benedetto XVI

Con la Catechesi di oggi vorrei iniziare a parlare della preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo. San Luca ci ha consegnato, come sappiamo, uno dei quattro Vangeli, dedicato alla vita terrena di Gesù, ma ci ha lasciato anche quello che è stato definito il primo libro sulla storia della Chiesa, cioè gli Atti degli Apostoli. In entrambi questi libri, uno degli elementi ricorrenti è proprio la preghiera, da quella di Gesù a quella di Maria, dei discepoli, delle donne e della comunità cristiana. Il cammino iniziale della Chiesa è ritmato anzitutto dall’azione dello Spirito Santo, che trasforma gli Apostoli in testimoni del Risorto sino all’effusione del sangue, e dalla rapida diffusione della Parola di Dio verso Oriente e Occidente. Tuttavia, prima che l’annuncio del Vangelo si diffonda, Luca riporta l’episodio dell’Ascensione del Risorto (cfr At 1,6-9). Ai discepoli il Signore consegna il programma della loro esistenza votata all’evangelizzazione e dice: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). A Gerusalemme gli Apostoli, rimasti in Undici per il tradimento di Giuda Iscariota, sono riuniti in casa per pregare, ed è proprio nella preghiera che aspettano il dono promesso da Cristo Risorto, lo Spirito Santo.

 

In questo contesto di attesa, tra l’Ascensione e la Pentecoste, san Luca menziona per l’ultima volta Maria, la Madre di Gesù, e i suoi familiari (v. 14). A Maria ha dedicato gli inizi del suo Vangelo, dall’annuncio dell’Angelo alla nascita e all’infanzia del Figlio di Dio fattosi uomo. Con Maria inizia la vita terrena di Gesù e con Maria iniziano anche i primi passi della Chiesa; in entrambi i momenti il clima è quello dell’ascolto di Dio, del raccoglimento. Oggi, pertanto, vorrei soffermarmi su questa presenza orante della Vergine nel gruppo dei discepoli che saranno la prima Chiesa nascente. Maria ha seguito con discrezione tutto il cammino di suo Figlio durante la vita pubblica fino ai piedi della croce, e ora continua a seguire, con una preghiera silenziosa, il cammino della Chiesa. Nell’Annunciazione, nella casa di Nazaret, Maria riceve l’Angelo di Dio, è attenta alle sue parole, le accoglie e risponde al progetto divino, manifestando la sua piena disponibilità: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua volontà» (cfr Lc 1,38). Maria, proprio per l’atteggiamento interiore di ascolto, è capace di leggere la propria storia, riconoscendo con umiltà che è il Signore ad agire. In visita alla parente Elisabetta, Ella prorompe in una preghiera di lode e di gioia, di celebrazione della grazia divina, che ha colmato il suo cuore e la sua vita, rendendola Madre del Signore (cfr Lc 1,46-55). Lode, ringraziamento, gioia: nel cantico del Magnificat, Maria non guarda solo a ciò che Dio ha operato in Lei, ma anche a ciò che ha compiuto e compie continuamente nella storia. Sant’Ambrogio, in un celebre commento al Magnificat, invita ad avere lo stesso spirito nella preghiera e scrive: «Sia in ciascuno l’anima di Maria per magnificare il Signore; sia in ciascuno lo spirito di Maria per esultare in Dio» (Expositio Evangelii secundum Lucam 2, 26: PL 15, 1561).

 

Anche nel Cenacolo, a Gerusalemme, nella «stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi» i discepoli di Gesù (cfr At 1,13), in un clima di ascolto e di preghiera, Ella è presente, prima che si spalanchino le porte ed essi inizino ad annunciare Cristo Signore a tutti i popoli, insegnando ad osservare tutto ciò che Egli aveva comandato (cfr Mt 28,19-20). Le tappe del cammino di Maria, dalla casa di Nazaret a quella di Gerusalemme, attraverso la Croce dove il Figlio le affida l’apostolo Giovanni, sono segnate dalla capacità di mantenere un perseverante clima di raccoglimento, per meditare ogni avvenimento nel silenzio del suo cuore, davanti a Dio (cfr Lc 2,19-51) e nella meditazione davanti a Dio anche comprenderne la volontà di Dio e divenire capaci di accettarla interiormente. La presenza della Madre di Dio con gli Undici, dopo l’Ascensione, non è allora una semplice annotazione storica di una cosa del passato, ma assume un significato di grande valore, perché con loro Ella condivide ciò che vi è di più prezioso: la memoria viva di Gesù, nella preghiera; condivide questa missione di Gesù: conservare la memoria di Gesù e così conservare la sua presenza.

 

L’ultimo accenno a Maria nei due scritti di san Luca è collocato nel giorno di sabato: il giorno del riposo di Dio dopo la Creazione, il giorno del silenzio dopo la Morte di Gesù e dell’attesa della sua Risurrezione. Ed è su questo episodio che si radica la tradizione di Santa Maria in Sabato. Tra l’Ascensione del Risorto e la prima Pentecoste cristiana, gli Apostoli e la Chiesa si radunano con Maria per attendere con Lei il dono dello Spirito Santo, senza il quale non si può diventare testimoni. Lei che l’ha già ricevuto per generare il Verbo incarnato, condivide con tutta la Chiesa l’attesa dello stesso dono, perché nel cuore di ogni credente «sia formato Cristo» (cfr Gal 4,19). Se non c’è Chiesa senza Pentecoste, non c’è neanche Pentecoste senza la Madre di Gesù, perché Lei ha vissuto in modo unico ciò che la Chiesa sperimenta ogni giorno sotto l’azione dello Spirito Santo. San Cromazio di Aquileia commenta così l’annotazione degli Atti degli Apostoli: «Si radunò dunque la Chiesa nella stanza al piano superiore insieme a Maria, la Madre di Gesù, e insieme ai suoi fratelli. Non si può dunque parlare di Chiesa se non è presente Maria, Madre del Signore… La Chiesa di Cristo è là dove viene predicata l’Incarnazione di Cristo dalla Vergine, e, dove predicano gli apostoli, che sono fratelli del Signore, là si ascolta il Vangelo » (Sermo 30,1: SC 164, 135).

 

Il Concilio Vaticano II ha voluto sottolineare in modo particolare questo legame che si manifesta visibilmente nel pregare insieme di Maria e degli Apostoli, nello stesso luogo, in attesa dello Spirito Santo. La Costituzione dogmatica Lumen gentium afferma: «Essendo piaciuto a Dio di non manifestare apertamente il mistero della salvezza umana prima di effondere lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli apostoli prima del giorno della Pentecoste “perseveranti d’un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria madre di Gesù e i suoi fratelli” (At 1,14); e vediamo anche Maria implorare con le sue preghiere il dono dello Spirito che all’Annunciazione l’aveva presa sotto la sua ombra» (n. 59). Il posto privilegiato di Maria è la Chiesa, dove è «riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro…, figura ed eccellentissimo modello per essa nella fede e nella carità» (ibid., n. 53).

 

Venerare la Madre di Gesù nella Chiesa significa allora imparare da Lei ad essere comunità che prega: è questa una delle note essenziali della prima descrizione della comunità cristiana delineata negli Atti degli Apostoli (cfr 2,42). Spesso la preghiera è dettata da situazioni di difficoltà, da problemi personali che portano a rivolgersi al Signore per avere luce, conforto e aiuto. Maria invita ad aprire le dimensioni della preghiera, a rivolgersi a Dio non solamente nel bisogno e non solo per se stessi, ma in modo unanime, perseverante, fedele, con un «cuore solo e un’anima sola» (cfr At 4,32).

 

Cari amici, la vita umana attraversa diverse fasi di passaggio, spesso difficili e impegnative, che richiedono scelte inderogabili, rinunce e sacrifici. La Madre di Gesù è stata posta dal Signore in momenti decisivi della storia della salvezza e ha saputo rispondere sempre con piena disponibilità, frutto di un legame profondo con Dio maturato nella preghiera assidua e intensa. Tra il venerdì della Passione e la domenica della Risurrezione, a Lei è stato affidato il discepolo prediletto e con lui tutta la comunità dei discepoli (cfr Gv 19,26). Tra l’Ascensione e la Pentecoste, Ella si trova con e nella Chiesa in preghiera (cfr At 1,14). Madre di Dio e Madre della Chiesa, Maria esercita questa sua maternità sino alla fine della storia. Affidiamo a Lei ogni fase di passaggio della nostra esistenza personale ed ecclesiale, non ultima quella del nostro transito finale. Maria ci insegna la necessità della preghiera e ci indica come solo con un legame costante, intimo, pieno di amore con suo Figlio possiamo uscire dalla «nostra casa», da noi stessi, con coraggio, per raggiungere i confini del mondo e annunciare ovunque il Signore Gesù, Salvatore del mondo. Grazie.

*************************************************************************************************

Novenario in onore della Madonna della Civita
Parrocchia Santa Maria Maggiore – Itri (Lt)
Predicatore P.Antonio Rungi, passionista

Primo giorno: 10 luglio 2012, ore 19.00

Questa sera la celebrazione è dedicata agli operatori pastorali e ai movimenti ecclesiali, da qui il tema della riflessione di stasera dedicata a “Maria, Madre del Buon Pastore” o a Maria “La Divina Pastora”.

Partiamo dal Vangelo di oggi per poi approfondire alcuni importanti significati di Maria Madre del divino pastore che è Gesù Cristo.
“Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità. Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: ‘La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!”.

Nella storia della devozione mariana ricorrono spesso apparizioni a pastori, pastorelli, come nel caso di Fatina. Segno evidente di una particolare attenzione della Madonna verso questa categoria semplice di lavoratori, ma anche segno di un significato teologico più ampio, che si raccorda a Cristo, Buon Pastore e Maria Madre del Buon Pastore.

La devozione mariana della Civita
Anche la devozione mariana alla Madonna della Civita vede impegnato un pastore.
La tradizione popolare, infatti, narra che la sacra immagine fu trovata da un pastore sordomuto mentre cercava una mucca dispersa nei boschi del monte Civita.
Tra i rami di una pianta di “leccio, la mucca in ginocchio e il pastore che ritrova l’uso dell’udito e della parola”, è così che inizia la storia e la devozione civitana.

Devozione a “Maria, Madre del divino Pastore”
C’è una precisa documentazione storica che ricorda come la devozione a “Maria, Madre del divino Pastore” – o, semplicemente, “Divina Pastora” – abbia avuto origine in Spagna fin dall’inizio del sec. XVIII, e in Italia fosse diffusa tra la fine dello stesso secolo e la prima metà del sec. XIX. Occorre però anche precisare che, nei ‘Rescritti’ con i quali la Santa Sede concedeva le Indulgenze per le pie pratiche devozionali e la facoltà di celebrare la Messa in onore della Vergine così onorata, non si usa mai il titolo di “Divina Pastora”, anche se esso ricorreva spesso nelle suppliche dei postulanti e nei discorsi dei predicatori popolari, ma quello teologicamente più corretto di “Madre del Buon Pastore”.

Il significato della devozione e le implicazioni teologiche e pastorali

– La messe è molta e gli operai sono pochi: pregare per le vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa.
– Essere in sintonia con i pastori della Chiesa: Papa, Vescovi e sacerdoti.
– Ascoltare la parola di Dio (ascoltatori), ma anche proclamare la parola di Dio (annunciatori). Sordità e mutismo non sono tollerati da un punto di vista spirituale e pastorale per i cristiani, nel senso che dobbiamo essere ascoltatori ed annunciatori veri della parola del Signore.
– Lavorare nella pastorale per l’unità della chiesa, mettendo a servizio della comunità ecclesiale i propri carismi, senza invidia e gelosia.
– Andare alla ricerca delle pecorelle smarrite, in quanto il gregge si è ridotto di numero e sono più quelle smarrite che quelle che si ritrovano nel gregge stesso. Basta osservare il numero di coloro che praticano assiduamente la chiesa.
– Tutti siano operatori pastorali e tutti dobbiamo attivarci per andare alla ricerca delle pecorelle smarrite che si trovano nelle nostre case e nei nostri luoghi abituali di vita.
– Valorizzare i tempi di preghiera, le novene come tempo di formazione cristiana e di formazione spirituale.
– Recuperare la frequenza dei sacramenti della confessione e della comunione.
– Maria, la Madre del Buon Pastore, ci offre Cristo Buon Pastore nella misericordia della confessione e nella comunione della santissima eucaristia.
– La festa religiosa è soprattutto festa dello spirito e della propria conversione.

+++++++++++++++++++++++++

Novenario in onore della Madonna della Civita
Parrocchia Santa Maria Maggiore – Itri (Lt)
Predicatore P.Antonio Rungi, passionista

Secondo giorno: 11 luglio 2012, ore 19.00

Questa sera la celebrazione è dedicata agli operatori sociali (Amministratori comunli, ERI, CRI, Associazioni di Volontariato, Pro Loco).

Partiamo dalla festa di oggi, che è quella di San Benedetto Abate, patrono d’Europa Vangelo di oggi per poi approfondire alcuni importanti significati di Maria donna dell acraità e del servizio disinteressato.
La figura di San Benedetto, fondatore del Monachesimo in Occidente e la sua Regola fondamentale di vita basata sulla preghiera e sul lavoro ci aiuta a capire il senso di un servizio quale è quello sociale, svolto da singole persone, da gruppi o da associazioni.

Dal Vangelo della festa odierna
In quel tempo, Pietro, disse a Gesù: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna».

LA RIFLESSIONE DI PAPA BENEDETTO XVI
San Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.

Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”.

La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.

Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.

Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.

All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta. 
Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.

DAL VANGELO DI SAN LUCA – LA VISITAZIONE
In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto»…. Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

MARIA DONNA DI CARITA’
È una bella immagine questa di Maria, giovane ragazza coraggiosa e determinata, che, aggregandosi a qualche carovana in marcia verso Gerusalemme, “in fretta” vuole raggiungere l’anziana cugina ad Ain Karen, quasi 150 km a sud di Nazaret. Questo aspetto dinamico della Visitazione è sempre stata fonte di ispirazione e di riflessione per la Chiesa.

La mariologia conciliare e quella contemporanea hanno continuato a mettere in rilievo questa “itineranza” di Maria, vedendovi in essa un modello per l’intera Chiesa vista come popolo in cammino verso Dio. Non solo ma anche per ogni singolo discepolo di Cristo alla sequela del Maestro (si veda anche il concetto di “peregrinatio fidei” di Maria in Lumen Gentium n. 58 e Redemptoris Mater n. 2). Come Gesù è la Via al Padre (Gv 14,6), la Chiesa ha sempre indicato Maria come la più perfetta discepola di Cristo (la prima vera “cristiana”), e quindi la via più sicura per andare a Lui e con Lui al Padre. Maria è la “Odighitria” cioè colei che indica la strada per andare a Cristo.

L’evangelista Luca aggiunge che Maria aveva “fretta” di raggiungere Elisabetta e di mettersi al suo servizio. Una fretta divina (non quella nostra spesso di natura nevrotica), una fretta posta in lei dallo Spirito. Sant’Anbrogio scriverà: “La grazia dello Spirito Santo non conosce ritardi”. Chi è guidato dallo Spirito non indugia in calcoli umani, spesso solo umani e quindi egocentrici. “Intuiamo che è lo Spirito a muovere Maria e a donarle tale libertà, tale creatività nell’uscire dalle abitudini” (Carlo M. Martini).

Maria dopo l’Annunciazione è ormai la “kekaritomene” cioè “colei che è la ricolma di grazia” cioè ricolma di Dio e del suo Dono, lo Spirito. Lei non solo è la “cristofora” perché porta Cristo nel suo grembo, ma è anche la “pneumatofora” cioè “portatrice dello Spirito”. Ma nello stesso tempo è lei stessa portata dal Figlio e dallo Spirito. Quello stesso Spirito presente e determinante per lei non solo nell’Annunciazione, ma anche in seguito: sarà infatti lui che la sosterrà, la consolerà, e la guiderà gradualmente alla verità su Gesù.

Maria è portatrice di pace

«Entrata nella casa di Zaccaria salutò Elisabetta». Un saluto alla maniera ebraica, in cui ci si augura la “pace” (Shalom), la vera pace che può essere data solo dal Signore perché “la visita del Signore è la pace per la casa dell’uomo”. Un saluto speciale tra due donne, una era madre ancora vergine, l’altra madre dopo che era stata sterile, l’una giovanissima e l’altra anziana, parenti tra di loro, tutte e due incinte e rese protagoniste dalla bontà divina, sorrette e guidate dallo Spirito. Maria, segno del Nuovo che realizza l’Antico Testamento porta in sé la beatitudine di quel dono che è Dio stesso, principio e principe della pace, compimento di ogni desiderio umano.

Il racconto della Visitazione, unico del genere in tutto il Nuovo Testamento, è pieno di bellezza e di delicatezza femminili. Una pagina biblica di vero protagonismo femminile. Ha scritto suor Maria Ko Ha Fong: “Maria ed Elisabetta: due donne protese verso il futuro del loro grembo, due donne che custodiscono dentro di sé un mistero ineffabile, un miracolo stupendo. La coscienza di essere rese oggetto di particolare predilezione di Dio le unisce, la missione comune di collaborare con Dio per un progetto grandioso le entusiasma e le fa esplodere in benedizione ed in canto di lode, l’esperienza della maternità prodigiosa le rende solidali. Il prodigio di Dio in Elisabetta è stato per Maria un segno che l’ha aiutata a pronunciare il suo fiat; ora il prodigio di Dio in Maria è segno per Elisabetta, un segno che suscita in lei una confessione di fede. Così le due donne, sono, l’una per l’altra, luogo di scoperta di Dio, epifania della sua grandezza e motivo per cui lodarlo e ringraziarlo” (Lectio Divina, in Theotokos 1997, p. 177-195).

Per questo motivo Elisabetta, guidata dallo Spirito, esulta lei stessa e sente sussultare di gioia il suo bambino. Lei infatti riconosce in Maria il compimento delle promesse fatte ad Israele. In Maria, Elisabetta vede l’Arca della nuova Alleanza, e come l’Arca di Dio portava gioia e benedizione solo con la sua stessa presenza (2 Sam 6,2-11), così Maria. E così, mossa dallo Spirito, Elisabetta la chiama la “Madre del mio Signore”, cioè la Madre del Figlio di Dio, del Messia, invocato e sospirato per tanti secoli. Proprio quella sua giovane cugina portava in grembo l’Atteso delle genti, il Salvatore promesso.

È propriamente la Visitazione di Cristo a Giovanni

C’è un bel commento di Sant’Ambrogio su questo incontro di Maria ed Elisabetta: “Elisabetta udì per prima la voce, ma Giovanni percepì per primo la grazia; essa udì secondo l’ordine della natura, egli esultò in virtù del mistero; essa sentì l’arrivo di Maria, egli del Signore; la donna l’arrivo della donna, il bambino l’arrivo del bambino.

Esse parlano delle grazie ricevute, essi nel seno delle loro madri realizzano la grazia ed il mistero della misericordia a profitto delle madri stesse: e questo per un duplice miracolo profetizzano sotto l’ispirazione dei figli che portano. Del figlio si dice che esultò, della madre che fu ricolma dello Spirito, ma fu il figlio, ripieno dello Spirito Santo a ricolmare anche la madre. Esultò Giovanni, esultò anche lo Spirito di Maria.

Ma mentre di Elisabetta si dice che fu ricolma di Spirito Santo allorché Giovanni esultò, di Maria, che era già ricolma di Spirito Santo, si dice che allora il suo spirito esultò. Colui che è incomprensibile operava in modo incomprensibile nella madre. L’una, Elisabetta, fu ripiena di Spirito Santo dopo la concezione, Maria invece prima della concezione” (Lc 2,19-22).

E Adrienne von Speyr precisa: “La visita, nel suo più profondo significato, non è una visita di Maria ad Elisabetta, ma una visita di Cristo a Giovanni. Entrambe le madri fungono ora solo da mediazione per i figli”. Come si vede anche nella Visitazione il protagonista dell’incontro è lo Spirito Santo, lo Spirito di quel Gesù che deve ancora nascere, ma al quale sta preparando il terreno ispirando parole profetiche ad Elisabetta e santificando il figlio. Questi diventerà il “profeta dell’Altissimo, camminerà davanti al Signore” (Lc 1,76), sarà come la sintesi di tutti i profeti perché il precursore di Cristo, il Messia. Due Bambini, ma che differenza tra loro. Commenta San Gregorio di Nazianzio: “Dopo la prima incerta luce del precursore, viene la Luce stessa, che è tutto fulgore. Dopo la voce, viene la Parola, dopo l’amico dello Sposo, viene lo Sposo stesso” (Discorso 45,28).

Maria è la prima missionaria di Cristo

Gesù Cristo è stato definito il primo Missionario, cioè il primo inviato ad annunciare il Regno di Dio; per questo egli stesso si autodefinì spesso “Colui che il Padre ha mandato”. Anche Maria è Missionaria, perché, come afferma Giovanni Paolo II nella RM n. 20, essendo Madre di Gesù, è diventata “in un certo senso, la prima discepola di suo Figlio”. Nella stessa enciclica (n. 21) viene messa in risalto la sua sollecitudine materna per gli uomini, “il suo andare incontro ad essi nella vasta gamma dei loro bisogni”. Il suo stile è attivo, solidale, interessato, intraprendente e anche creativo (ricordiamo le nozze di Cana e anche la Visitazione).

Anche il Papa Paolo VI così si esprime: “La donna contemporanea, con lieta sorpresa, constaterà che Maria di Nazaret, pur completamente abbandonata alla volontà del Signore, fu tutt’altro che donna passivamente remissiva o di una religiosità alienante… e riconoscerà in lei una donna forte, che conobbe povertà e sofferenza, fuga ed esilio…” (Marialis Cultus, n. 37).

Il viaggio di Maria quindi è un viaggio di natura missionaria. Dopo l’Annunciazione lei stessa si percepisce come “Colei che è stata ricolmata di grazia” da parte del Signore Altissimo, che è stata amata totalmente ed “evangelizzata per prima” avendo ricevuto la lieta notizia dell’Incarnazione, prima di tutti gli altri. Nella Visitazione abbiamo insieme la prima evangelizzata che diventa la prima evangelizzatrice diventando così come il prototipo di tutti i missionari proprio perché sospinta solo dall’amore di e per Cristo (2 Cor 5,14).

Origene, un Padre della Chiesa, ha scritto: “Gesù, che era nel seno di lei, aveva fretta di santificare Giovanni che si trovava nel grembo della madre” (Omelie su Luca VII, 1). Ecco che Maria diventa lo strumento per attuare questa “fretta evangelizzatrice” di Gesù verso il cugino.

Vangelo significa “buona o bella notizia” ed è quella che ha annunciato Gesù Cristo portando nel mondo la salvezza, la riconciliazione con Dio e la gioia. Sono infatti le belle notizie che ridanno la gioia persa ed il coraggio di andare avanti. Il Vangelo è Gesù Cristo stesso (Origene parla di “Autobasileia”), la vera bella notizia che ha riportato nel mondo la gioia, cominciando dalla Madre Maria, da Elisabetta e da Giovanni.

Maria è portatrice di gioia, segno della Nuova Alleanza

Ogni nuova vita nel mondo non è che un piccolo riflesso di Dio Creatore ed un invito da parte sua a sperare nel futuro. Lui stesso, Dio della vita e di ogni vita, non può non sorridere davanti ad ogni forma di vita. Ma lo fa specialmente davanti ad un bambino. Dio Padre, anche lui, avrà sorriso di gioia davanti a quelle sue due figlie, ambedue donne incinte e future madri, felici e festanti, perché si sentivano benedette dall’Alto.

Commenta ancora Maria Ko Ha Fong:

“La gioia di Maria è ben più grande di quella di qualsiasi madre. Il Figlio nascosto nel suo grembo non è solo un sorriso di Dio, ma è il Dio del sorriso, il Dio della gioia, di una letizia contagiosa, coinvolgente… Intorno a Maria la gioia si espande. Alla sua presenza, anche Zaccaria, chiuso nel suo mutismo incredulo, sente avvicinarsi l’adempimento della promessa fattagli dall’angelo «Avrai gioia ed esultanza» (Lc 1,149)”.

Ed il teologo Bruno Forte precisa ancora:

“La gioia nasce dal sentirsi amati: perciò il cristiano, che sa nella fede di essere infinitamente amato da Dio, avvolto e custodito dalla tenerezza del suo amore fedele, è fatto per la gioia… La gioia scaturisce dall’umile riconoscimento dei tanti doni che riempiono l’esistenza, dal cielo sopra di noi, al cuore che batte in noi, all’amore che ci dona coraggio e vita… La gioia è proclamata in maniera nuova e definitiva dalla buona novella dell’Avvento del Dio con noi: «Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10)”.

La Visitazione sembra proprio costituire il primo lampo di gioia messianica portata dalla presenza di Gesù in sua Madre Maria. Quella stessa gioia che sarà portata dal Vangelo predicato e testimoniato da tanti altri missionari e missionarie nel nome di Gesù e sull’esempio di Maria.

LA DEVOZIONE ALLA MADONNA DELLA CIVITA. I BENEDETTINI DI FIGLINE

Le sue origini e come sia  giunta sino a noi è un mistero; in un luogo così impervio. E’ parte della tradizione popolare. La provenienza del quadro stesso si fa risalire alle persecuzioni iconoclaste di Costantinopoli ordite dall’Imperatore Leone Isaurico, intorno all’VIII secolo d.c.
Due monaci basiliani, sorpresi con l’immagine, sarebbero stati rinchiusi in una cassa con il dipinto e gettati in mare. Sulle coste sicule, a Messina, dopo  54 giorni, il viaggio terminò.
Fu esposta alla venerazione dei fedeli per qualche tempo. E con la scomparsa da Messina ed il ritrovamento sul Monte Civita ha inizio la storia della “nostra Madonna”.
Più verosimilmente  possiamo immaginare che i monaci basiliani approdati a Gaeta transitando per questi luoghi abbiano lasciato il quadro, di fattura squisitamente orientale, ai monaci del monastero di Figline. Con certezza storica, vi è  riferimento ad una chiesetta della Madonna della Civita, risalente al 1147. Una donazione, riportata in un documento, fatta da un notaio di Itri e da sua moglie, risalente a tale anno. Il documento riporta il nome dell’abate del monastero, tale Riccardo e che fra Bartolomeo era il custode della chiesetta.

Storicamente, quindi, è la fonte più attendibile da cui prendere il via per raccontare, seppur in modo sommario, gli eventi che hanno caratterizzato la vita del Santuario e parlare dell’immagine della Civita. Il millennio civitano è stato solennemente ricordato con le celebrazioni che dal 27 al 31 maggio 2000 hanno convogliato al Santuario fedeli, autorità religiose e civili per ricordare i mille anni di devozione a Maria. Clou delle cerimonie, il  Convegno Teologico Pastorale ed una solenne celebrazione liturgica di rito orientale cattolica.

***************************

 Novenario in onore della Madonna della Civita
Parrocchia Santa Maria Maggiore – Itri (Lt)
Predicatore P.Antonio Rungi, passionista

Terzo giorno: 12 luglio 2012, ore 19.00

Questa sera la celebrazione è dedicata a tutti i bambini battezzati nell’anno 2011, ai loro genitori, padrini e madrine. Questa celebrazione ci dà l’opportunità di riflettere sulla natività della beata Vergine Maria o come si dice nella devozione popolare “Maria Bambina”, la cui festa ricorre l’8 settembre.

Partiamo dalla Parola di Dio:
Prima Lettura. Dal libro del profeta Osèa
Così dice il Signore: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio…
 
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni…

Il culto della Natività di Maria

Origini della festa

La fonte più antica ritenuta attendibile dalla Chiesa, che illustra la nascita e l’infanzia di Maria, è costituita dal “Protoevangelo” (Vangeli Apocrifi) di Giacomo risalente al II secolo d.C.
Nel testo vengono illustrati momenti salienti della sua vita: il matrimonio dei genitori Gioacchino ed Anna della tribù di Giuda della stirpe di Achar, la concezione dopo vent’anni senza prole, la nascita e la presentazione al tempio (il tutto inserito nella cornice delle vicende della città di Gerusalemme).
La sorte toccata alla casa natale  di Maria non è disgiunta da quella subita dalla città di Gerusalemme, con persecuzioni, distruzione del tempio, trasformazione in luogo di culto pagano, allontanamento dei giudei, ecc.. Con l’arrivo dell’imperatore Costantino e di sua madre Elena a Gerusalemme nella prima metà del secolo IV, dopo la libertà data alla religione cristiana, si apre una nuova era ai luoghi santi: gli scavi condotti hanno permesso di rintracciare, tra le costruzioni volute dalla famiglia imperiale, i ruderi di un oratorio sul luogo che la tradizione indica quale casa natale di Maria..
Con il III Concilio di Efeso del 431 che sancì la legittimità del titolo “Madre di Dio” per Maria, si ebbe una fioritura di feste mariane nel calendario liturgico, tra le quali: la Natività, la Presentazione al Tempio, l’Annunciazione e la Dormizione.
La data della festa della Natività di Maria venne fissata in Gerusalemme nella prima metà del secolo V, ai tempi del patriarca Giovenale e dell’imperatrice Eudossia, : l’8 settembre in occasione della dedicazione della Basilica di Santa Maria, edificata sul luogo della casa natale di Maria.
Tale data venne scelta anche in relazione all’antico anno liturgico che iniziava con il mese di settembre: in tal modo veniva data una cornice “mariana” allo stesso. Infatti la Natività di Maria precede ed annuncia le feste del primo polo (Natale ed Epifania) assumendo il valore di inizio dell’anno liturgico. Segue poi il polo cristologico (Pasqua e Pentecoste) accompagnato dall’Assunzione di Maria che diviene conseguenza dell’opera di salvezza e chiusura dell’anno liturgico.
Da Gerusalemme la festa della Natività venne introdotta a Costantinopoli: il primo documento che ne attesta la presenza è un inno del diacono Romano il Melode, composto prima del 548: quale diacono saliva nell’ambone, cantava  il proemio e le strofe facendo ripetere il ritornello finale a tutti i presenti: “è la Madre di Dio, nutrice della nostra vita”. Il testo è tuttora parzialmente in uso nell’ufficiatura della festa che, per la chiesa bizantina, ricalca ancora quella in uso dal IX secolo con un giorno di prefesta, quattro di dopofesta e la chiusura il 13 settembre.
La prima commemorazione mariana che si conosca a Roma è quella del mercoledì delle Quattro Tempora di Avvento, introdotta da papa Leone Magno (440-461) nella liturgia romana. Verso il 595 papa Gregorio Magno (590-604) inaugura l’”ottava di Natale” considerata la prima festa mariana della liturgia latina.

Il culto di santa Maria Bambina

Intorno ai secoli X-XI nelle celebrazioni religiose venne introdotto l’utilizzo di statue lignee volute dalla gerarchia ecclesiastica per rendere più visibile il fulcro devozionale ai fedeli.

Le statue lignee che conobbero maggiore diffusione furono quelle di Gesù Bambino che riprendevano la rappresentazione della Natività di Cristo realizzata a Greccio nel 1223 da san Francesco. Tra tali statue la più famosa è quella della chiesa di santa Maria in Aracoeli di Roma, dove la quattrocentesca statua è sempre stata al centro di un forte culto per le doti taumaturgiche attribuitele nel proteggere dalle malattie infettive nella gravidanza e durante il parto.

Nel corso dei secoli la presenza di queste statue si diffonde anche in ambito domestico e monastico e si utilizzeranno materiali diversi come lo stucco e la cera, invece del marmo e del legno.

A partire dalla metà del Cinquecento i monasteri femminili diventano centri di produzione di questi simulacri grazie all’abilità ed alla pazienza delle monache ed è ai Padri Francescani che si deve principalmente la diffusione di questi Gesù Bambini.

IL QUADRO DELLA MADONNA DELLA CIVITA- LA MADONNA NERA

Il quadro raffigurante la Madonna della Civita è di stile bizantino ed è attribuita a San Luca per la presenza di tre lettere, oramai sbiadite, poste alla base del quadro: L.M.P. a significare “Lucas Me Pinxit”. Il quadro è stato sottoposto a restauro più volte:
In occasione della prima incoronazione del 1777. L’antica tavola di legno, sulla quale era collocato il quadro, fu sostituita con una lastra di rame.
 Nel 1815, quando un fulmine colpì l’immagine rischiando di distruggere la tela. Il quadro fu sistemato su un telaio di legno (sul quale è giunto fino ai giorni nostri), dopo aver rimosso la lastra di rame.
 Durante la seconda guerra mondiale il quadro non fu distrutto grazie a Don Lidio Borgese, Rettore del Santuario in quel periodo, che riuscì a nascondere l’immagine sotto il suo mantello. Così, senza farsi scoprire dai tedeschi, il Rettore viaggiò tra i Monti Lepini, fino a Sonnino e Cisterna di Latina, riuscendo, successivamente, a far tornare il quadro a Itri.

Secondo la tradizione, l’immagine della Madonna della Civita venne dipinta da San Luca e prima delle persecuzioni iconoclaste si trovava conservata nella Chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli (oggi Istanbul). Rappresenta la Vergine incoronata con le mani aperte in segno di benedizione. Anche il Bambino, che tiene in grembo, apre le mani nella stessa posa. La pelle delle mani e del volto della Madonna appaiono scure, mentre quelle del Bambino sono più chiare. Questo particolare è importante se, come avviene spesso, s’intenda negare l’intenzionalità di una tale rappresentazione con la spiegazione dell’annerimento legata a fenomeni di ossidazione chimica dei pigmenti utilizzati. L’attribuzione a San Luca dell’immagine è anch’essa da ritenersi simbolica: tante Madonne Nere, infatti, sono attribuite all’evangelista, da sospettare che per tutta la vita egli non avesse fatto altro che dipingere. In realtà, molto probabilmente, l’associazione con il Santo è dovuta al fatto che nella rappresentazione simbolica degli Evangelisti nel cosiddetto Tetramorfo, San Luca è simboleggiato dalla figura di un toro, animale da sempre associato alla forza ed all’energia della terra. Questi riferimenti alle energie telluriche, sempre presenti nei luoghi ove si venerano immagini di Madonne Nere, sono in questo Santuario particolarmente rinforzati da altre due presenze simboliche che possono essere relazionate agli stessi significati.

IL SANTUARIO DELLA CIVITA
Le origini del Santuario della Madonna della Civita sono antichissime e si perdono nella leggenda. Tutto ruota attorno all’icona bizantina della Vergine che qui si venera, la cui fattura è attribuita San Luca evangelista ed apostolo. Si tramanda che durante le persecuzioni contro i Cristiani intraprese da Leone Isaurico, imperatore di Costantinopoli, durante l’VIII sec., due monaci basiliani cercarono di salvare dalla furia iconoclasta l’immagine sacra. Sorpresi durante l’atto, furono rinchiusi in una cassa con l’immagine e gettati in mare: se davvero l’immagine era così miracolosa come credevano, ironizzarono i loro aguzzini, allora si sarebbero salvati. Invece fu proprio così che andò: dopo 54 giorni di peregrinazione in mare, la cassa con i monaci e l’icona giunse sulle sponde di Messina. Grande fu lo stupore della popolazione locale quando, aperta la cassa, videro i due monaci sani e salvi con l’immagine tra le loro braccia. Per loro, da come raccontavano, erano passate solo poche ore da quando erano stati gettati in mare, invece risultò che si trovavano in mare, appunto, da ben 54 giorni! Il quadro venne posto nella cattedrale di Messina e divenne oggetto di venerazione, fino a che, un giorno esso sparì senza motivo apparente. Da questo momento in poi dell’immagine si perse traccia, finché non avvenne il ritrovamento fortuito, sulla sommità del Monte della Civita, nel territorio di Itri, dell’immagine da parte di un pastore sordomuto, che miracolosamente riacquistò la parola e l’udito. Egli corse subito in paese a dare la buona notizia, e la sacra immagine fu affidata ai monaci Benedettini. La prima notizia certa di una costruzione dedicata al culto dell’immagine si ha in un documento del 1147, conservato a Montecassino, dove si nomina un’offerta per la ricostruzione del Santuarietto della Civita che, quindi, all’epoca doveva esistere già da un po’. Nel 1491 il vescovo di Gaeta inaugurò il nuovo santuario, più ampio e funzionale, intitolandolo all’Immacolata. Il flusso di pellegrini aumentò costantemente, così come il numero di grazie e di miracoli concessi: il più illustre avvenne nel 21 luglio del 1527, quando un’epidemia di peste che aveva colpito tutti i paesi circostanti venne debellata. Da allora, la festa liturgica della Madonna della Civita è stata fissata al 21 luglio. L’icona venne solennemente incoronata due volte: nel 1777 e nel 1877. Il crescente flusso di pellegrini rese necessaria la realizzazione di un nuovo santuario, ancora più grande: la costruzione iniziò nel 1820 e si concluse sei anni dopo. Dal 1985 il Santuario è stato affidato alle cure dei Padri Passionisti che tuttora lo detengono.

***********************************************************************************

 Novenario in onore della Madonna della Civita
Parrocchia Santa Maria Maggiore – Itri (Lt)
Predicatore P.Antonio Rungi, passionista

Quarto giorno: 13 luglio 2012, ore 19.00

Questa sera la celebrazione è dedicata a tutti i bambini che hanno ricevuto la santissima eucaristia per la prima volta in questo anno, con i loro genitori, parenti ed amici che hanno condiviso con loro il giorno di festa. Anche le catechiste che ne hanno preparato la formazione spirituale e dottrinale entrano tra le preghiere di questa sera dedicata alla Madonna “Donna eucaristica e maestra dell’eucaristia”.

Partiamo dalla Parola di Dio: Prima Lettura. Dal libro del profeta Osèa
Torna dunque, Israele, al Signore, tuo Dio, poiché hai inciampato nella tua iniquità. Preparate le parole da dire e tornate al Signore; ditegli: «Togli ogni iniquità, accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode delle nostre labbra. Assur non ci salverà, non cavalcheremo più su cavalli, né chiameremo più “dio nostro” l’opera delle nostre mani, perché presso di te l’orfano trova misericordia». «Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro. Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano. Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano. Che ho ancora in comune con gli idoli, o Èfraim? Io l’esaudisco e veglio su di lui; io sono come un cipresso sempre verde, il tuo frutto è opera mia». Chi è saggio comprenda queste cose, chi ha intelligenza le comprenda; poiché rette sono le vie del Signore, i giusti camminano in esse, mentre i malvagi v’inciampano.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. Ma, quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato. Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra; in verità io vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo».

ALLA SCUOLA DI MARIA, DONNA EUCARISTICA
CAP.VI -’ENCICLICA ECCLESIA DE EUCHARISTIA

Per comprendere l’ultimo capitolo dell’enciclica occorrono almeno due chiavi ermeneutiche che ci facciano capirne la genesi e penetrarne i contenuti: la prima è di ordine ecclesiale e ci fa comprendere la novità della proposta di Maria come donna eucaristica nella continuità con i precedenti dati del magistero pontificio; la seconda è di ordine culturale e ci fa scorgere in Maria vitalmente protesa verso l’eucaristia un paradigma di quel dono di sé che costituisce una riscoperta dell’antropologia contemporanea.

Prolegomeni ecclesiali

Innanzitutto appare chiaro che sia la tipologia mariana eucaristica, sia la presenza di Maria nella celebrazione dei divini misteri non si spiegano senza ricorrere alla dottrina della Lumen gentium (1964) e al suo sviluppo in ambito liturgico compiuto dalla Marialis cultus di Paolo VI (1974). Dell’una e dell’altra il capitolo finale dell’Ecclesia de Eucharistia appare una conseguenza, un’applicazione e in un certo senso anche un superamento, perché giunge alla formula inedita di Maria donna eucaristica.
Così la «relazione profonda» (EE 53) tra Maria e l’eucaristia, va collocata nell’affermazione pregnante del capitolo VIII della LG  secondo cui «per la sua speciale partecipazione alla storia della salvezza, Maria riunisce e riverbera i massimi dati della fede» (LG 65). A questi massimi dati della fede appartiene l’eucaristia, mysterium fidei per eccellenza.
Ugualmente la presentazione di Maria donna eucaristica esemplare per la comunità cristiana si può capire soltanto in base alla dottrina patristico-conciliare della Vergine Madre «tipo della Chiesa» nell’ordine «della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo» (LG 63). Tale dottrina è applicata dalla Marialis cultus alla liturgia da celebrare e vivere ispirandosi a Maria «modello dell’atteggiamento spirituale con cui la Chiesa celebra e vive i divini misteri» (MC 16). E il documento scende all’esemplificazione di Maria «Vergine in ascolto…, in preghiera…, madre…, offerente» (MC 17-20) e alla menzione della sua presenza nel sacrificio eucaristico «che la Chiesa compie in comunione con i santi del cielo e, prima di tutto, con la beata Vergine» (MC 20).

0.2. Il significato e valore del dono
L’enciclica Ecclesia de Eucharistia s’inserisce nel contesto programmatico del terzo millennio, che si preoccupa «di ”essere” prima che di “fare”» (NMI 15), poiché presenta Maria nella logica del dono di sé, di cui è vertice l’eucaristia. Già ogni essere umano, creato a immagine di Dio, riflette in sé la natura relazionale di Dio unitrino, sicché «non può trovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (GS 24). L’esperienza ci fa percepire che ogni storia individuale s’integra continuamente con «altre storie» fino a fare sorgere nuove partnership e unità complesse. Paradossalmente però queste unità si costituiscono mediante un atteggiamento di accoglienza dell’altro che giunge alla piena disponibilità e donazione di sé.
Gesù poi rompe il cerchio dello scambio invitando i suoi discepoli al dono disinteressato, senza mire segrete di ricevere un contraccambio o una ricompensa: “Al contrario, quando dai un banchetto invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti (Lc 14,13-14).
Proprio in tale contesto s’inserisce l’Eucaristia che esige una cultura del dono di sé e ci aiuta a realizzarlo. Gesù raggiunge il culmine della donazione di sé nella sua passione: ha dato se stesso (Gal 1,4; 1Tm 2,6), la sua vita (Mc 10,45), il suo corpo (Mt 26,26). Anzi egli stesso è il dono per eccellenza che scaturisce all’amore del Padre: «Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16)[8]. Gesù a sua volta offre tanti doni agli uomini: la Parola (Gv 17,7.14), il Pane di vita (Gv 6,35.51), la pace (Gv 14,27), la Madre (Gv 19,26-27). In particolare egli fa due doni preziosissimi: «dona lo Spirito senza misura» (Gv 3,34) e «la vita eterna» (Gv 10,28). Secondo l’enciclica Ecclesia de Eucharistia, l’Eucaristia non è «un dono, pur prezioso fra tanti altri, ma come il dono per eccellenza, perché dono di se stesso» (EE 11).
Giovanni Paolo II parte dalla convinzione che «non possiamo dimenticare Maria» perché ella ha con il ss. Sacramento «una relazione profonda» (EE 53):[9]  il «binomio Maria ed eucaristia» è inscindibile (EE 57).

1. Maria donna eucaristica con l’intera sua vita (EE 53)
Il riferimento a Maria è quanto mai opportuno perché passiamo dall’astratto al concreto, dalle teorie al tipo antropologico rappresentato dalla donna «eucaristica», tutta protesa verso l’«eucaristia» in atteggiamenti «eucaristici». Maria è «totalmente relazionale» a Cristo, quindi anche al sacramento dell’eucaristia.
Per il papa è agevole compiere una lettura in prospettiva eucaristica di tutta la vita di Maria, senza legarsi alla cronologia. Non solo traspaiono le analogie tra lei e noi, ma anche la singolarità e l’ampiezza della sua esperienza che abbraccia i principali aspetti del mistero eucaristico.

1.1. Maria crede nel Verbo fatto carne.
Nell’Annunciazione si riscontra «un’analogia profonda tra il fiat pronunciato da Maria alle, e l’amen che ogni fedele pronuncia quando riceve il corpo del Signore» (EE 55). L’atteggiamento che ci accomuna è quello della fede, per cui Maria crede «nel mistero dell’incarnazione, anticipando anche la fede eucaristica della Chiesa»: “A Maria fu chiesto di credere che colui che ella concepiva «per opera dello Spirito santo» era «il Figlio di Dio» (cf Lc 1,30-35). In continuità con la fede della Vergine, nel mistero eucaristico ci viene chiesto di credere che quello stesso Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, si rende presente con l’intero suo essere umano-divino nei segni del pane e del vino»“(EE 55).
Ognuno può percepire l’importanza di questa fede per i sacerdoti e per i fedeli che sono abituati a ripetere ogni giorno la cena del Signore e quindi sono esposti al tran tran quotidiano e al tarlo dell’abitudine. L’enciclica mira precisamente a suscitare lo stupore della fede dinanzi al mistero eucaristico, mysterium fidei, neutralizzando il formalismo e la convenzionalità.

1.2. Maria primo tabernacolo.
La visita di Maria ad Elisabetta pone di fronte ad un dato oggettivo e ad un atteggiamento soggettivo, ambedue relazionali all’eucaristia. Oggettivamente, come mostra il parallelismo con il trasporto dell’arca in casa di Obededom, Luca vuole trasmettere la convinzione che Maria è l’arca della nuova alleanza, il luogo incorruttibile della presenza del Signore. L’enciclica papale, pur consapevole delle differenze tra la dimora personale e quella locale, legge suggestivamente il dato biblico come prolessi o anticipo di quanto avverrà con l’eucaristia, che sarà conservata nelle chiese in apposito tabernacolo per essere adorata dai fedeli. In ambedue la presenza di Cristo è recondita: “Quando, nella visitazione, porta in grembo il Verbo fatto carne, ella si fa, in qualche modo, «tabernacolo» – il primo «tabernacolo» della storia – dove il Figlio di Dio, ancora invisibile agli occhi degli uomini, si concede all’adorazione di Elisabetta, quasi «irradiando» la sua luce attraverso gli occhi e la voce di Maria»” (EE 55).

1.3. Il Magnificat cantico eucaristico.
Cantato da Maria dopo la rivelazione della sua maternità da parte di Elisabetta, il Magnificat rimbalza nella Chiesa che «nell’eucaristia si unisce pienamente a Cristo e al suo sacrificio, facendo suo lo spirito di Maria», ossia «rileggendo il Magnificat in prospettiva eucaristica» (EE 58).

Le convergenze spirituali tra la celebrazione dell’eucaristia e il cantico di Maria sono varie:
      1.3.1. lode e rendimento di grazie, poiché in ambedue si loda e ringrazia il Padre «per Gesù, in Gesù e con Gesù», cioè si realizza il «vero atteggiamento eucaristico».
      1.3.2. Memoria dell’incarnazione redentrice. In ambedue si fa «memoria delle meraviglie operate da Dio nella storia della salvezza»: nel Magnificat si celebra l’incarnazione redentrice, indicata «nelle grandi cose» compiute da Dio in Maria, nell’eucaristia si attualizza il mistero pasquale del Signore.
1.3.3. Tensione escatologica verso il nuovo cosmo, anticipato nella storia. Maria canta quei «cieli nuovi» e quella «terra nuova» il cui germe è posto «nella povertà dei segni sacramentali» e nella vita degli umili che Dio innalzerà (EE 58).

1.4. Unita nell’offerta del sacrificio.
Nell’infanzia di Gesù, Maria offre due atteggiamenti indispensabili ad una partecipazione all’eucaristia: l’amore e l’offerta del sacrificio. A Betlem la Madre si rivela «inarrivabile modello di amore» quando contempla con sguardo rapito il volto di Cristo appena nato e lo stringe fra le sue braccia (EE 55). Nel tempio di Gerusalemme, l’annuncio di Simeone riguarda «il dramma del Figlio crocifisso» e quindi «lo Stabat Mater della Vergine ai piedi della croce»; in conseguenza «Maria vive una sorta di eucaristia anticipata, si direbbe una comunione spirituale di desiderio e di offerta, che avrà il suo compimento nell’unione col Figlio nella passione» (EE 56). La lettura compiuta dall’enciclica è tipicamente spirituale e cristiana: una lectio divina che esplicita in termini post-pasquali ciò che era contenuto e adombrato nell’esperienza vita le compiuta da Maria. 

1.5. Fidatevi della parola di mio Figlio.
Del segno di Cana l’enciclica ricorda solo la coincidenza del «Fate quello» di Maria con il  «Fate questo» di Cristo, secondo cui la Madre ci spinge a obbedire al Figlio, che a sua volta ordina di compiere l’eucaristia in sua memoria. Al tempo stesso il papa pone sulle labbra di Maria un suggestivo invito a fidarci di Cristo e della sua potente parola, senza tergiversare: Con la premura materna testimoniata alle nozze di Cana, Maria sembra dirci: «Non abbiate tentennamenti, fidatevi della parola di mio Figlio. Egli, che fu capace di di cambiare l’acqua in vino, è ugualmente capace di fare del pane e del vino il suo corpo e il suo sangue, consegnando in questo mistero ai credenti la memoria viva della sua asquea, per farsi in tal modo pane di vita» (EE 54).

1.6. Presente presso la croce.
Il vertice della partecipazione di Maria al mistero pasquale, di cui l’eucaristia è l’anamnesi, è certo l’esperienza di questo mistero da parte di lei «in prima persona sotto la croce» (EE 56). L’enciclica non sviluppa questo momento, meglio questa «ora», in cui Maria è presente per un appuntamento del Figlio nell’episodio di Cana, ma si limita a ricordare «ciò che Cristo ha compiuto anche verso la Madre a nostro favore», cioè quando «a lei consegna il discepolo prediletto e, in lui, consegna ciascuno di noi: “Ecco tuo figlio”» (EE 57). Nel memoriale del Calvario – insiste il papa – non manca la riattualizzazione di questa consegna, per cui vivere nell’eucaristia il memoriale della morte di Cristo implica anche ricevere continuamente questo dono. Significa prendere con noi – sull’esempio di Giovanni – colei che ogni volta ci viene donata come Madre. Significa assumere al tempo stesso l’impegno di conformarci a Cristo, mettendoci alla scuola della Madre e lasciandoci accompagnare da lei (EE 57).

1.7. Assidua alla frazione del pane.
Infine l’enciclica ci fa soffermare con compiacenza su Maria «nel periodo post-pasquale, nella sua partecipazione alla celebrazione eucaristica, presieduta dagli apostoli, quale “memoriale” della passione» (EE 56). Il papa sorvola sulla presenza di Maria nell’ultima cena, su cui tace il vangelo, quindi mancherebbe la base biblica diretta per affermare tale presenza. Tuttavia – aggiungiamo noi – la Madre di Gesù era solita andare «tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua» (Lc 2,41), usanza conservata anche nell’anno in cui Cristo viene crocifisso. Infatti, come nota Laurentin, Maria era a Gerusalemme il Venerdì santo (Gv 19,25-27). Vi è da presumere che vi fosse il Giovedì. Se prese parte alla cena con coloro cui il Cristo ha detto: «Prendete e mangiate», non fu, in ogni caso, compresa tra coloro a cui si rivolgevano le parole d’istituzione: «Fate questo in memoria di me».
Dobbiamo pertanto rifarci all’uso degli israeliti al tempo di Gesù per dedurre che verosimilmente Maria si trovava con Gesù per l’ultima cena. La consuetudine ebraica prevedeva per la cena pasquale, come per altri incontri conviviali, una stanza attigua per le donne[13], ma la Pasqua veniva celebrata dall’intera famiglia, tanto che avveniva in essa l’interrogazione dei figli circa il perché del rito (Es 12,3-4.26). Anzi pare compito della madre di famiglia accendere le lampade per dare inizio alla cena pasquale.
Più certa è la presenza di Maria alla «frazione del pane» (At 2,42), formula indicante l’eucaristia, che veniva celebrata assiduamente dalla comunità di Gerusalemme e poi da Paolo (cf At 20,7.11; 27,35). Gli atti degli apostoli recensiscono la Madre di Gesù tra gli apostoli «concordi nella preghiera» (At 1,14), nella prima comunità radunata dopo l’ascensione in attesa della Pentecoste. Questa sua presenza non poté certo mancare nelle celebrazioni eucaristiche tra i fedeli della prima generazione cristiana, assidui «nella frazione del pane» (At 2,42) (EE 53).
Il Papa s’immedesima nella situazione verosimilmente vissuta da Maria durante le cene eucaristiche, immaginandone «i sentimenti»: Quel corpo dato in sacrificio e ripresentato nei segni sacramentali era lo stesso corpo concepito nel suo grembo! Ricevere l’eucaristia doveva significare per Maria quasi un riaccogliere in grembo quel cuore che aveva battuto all’unisono col suo e un rivivere ciò che aveva sperimentato in prima persona sotto la Croce (EE 56).
Al di là di questi probabili sentimenti personali di Maria nella comunione eucaristica[14], uno dei sommari degli Atti degli apostoli (2,42-47) ci offre l’atmosfera spirituale che accompagnava realmente il rito dello spezzare il pane. La Madre di Gesù, nominata come facente parte della comunità cristiana post-pasquale (At 1,14), era tra quei «tutti»che «ogni giorno insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia (en agalliásei) e semplicità di cuore (kai aphelóteti)» (At 2, 46). Maria partecipa non solo alla celebrazione domestica dell’eucaristia, ma anche ai sentimenti che animano i discepoli del Signore: la gioia o giubilo che proviene dalla fede (cf At 8,8.39; 13,48.52; 16,34) e che ella aveva sperimentato ed espresso nel Magnificat (Lc 1,46-47) e la semplicità di cuore che è propria del povero di Jhwh e della persona evangelica.  
Possiamo concludere con Giovanni Paolo II che «Maria è donna “eucaristica” con l’intera sua vita» (EE 53), durante la quale ella ha sperimentato un insieme di sentimenti che divengono esemplari per tutta la Chiesa: fede, canto, amore, comunione sacrificale, gioia e semplicità di cuore…
Per la prima volta Maria è presentata come «donna eucaristica» (EE 53-58), cioè totalmente relazionale e protesa all’«eucaristia», tanto che tale relazionalità costituisce una chiave ermeneutica per comprendere la vita di Maria ed insieme una tipologia antropologica per la Chiesa e per i singoli fedeli.

2. Maria è presente in ciascuna delle nostre celebrazioni eucaristiche (EE 57)
La presenza di Maria nella celebrazione liturgica e nell’eucaristia, corpo del Signore, merita una speciale considerazione. Essa non può prescindere dalla presenza di Cristo nel rito e nel sacramento eucaristico, che occorre prima precisare per coglierne la similitudine e la differenza.

2.1. La presenza reale e personale di Cristo
La teologia post-conciliare si accorda nel ritenere «la presenza di Cristo nella liturgia» come «il vero tema centrale» della cristologia, senza di cui non si spiega la realtà del mistero eucaristico.
Intendendo per presenza «la relazione reale esistente tra due o più esseri che sono tra loro vicini per qualsiasi titolo o fondamento reale»,[16] dobbiamo riconoscere che Cristo è presente nella celebrazione liturgica in modo progressivo che raggiunge la perfezione nell’eucaristia. Infatti, la molteplice presenza di Cristo (cf SC 7) si rivela in crescendo nella liturgia: a) prima di tutto nell’assemblea orante, secondo la sua promessa: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20); b) poi nella parola, perché è lui a parlare nella Scrittura; c) inoltre nel ministro, poiché offre se stesso mediante il ministero dei sacerdoti; d) infine nell’eucaristia, dove è presente in modo reale per antonomasia e personalmente tutto intero, uomo-Dio.
Da ciò possiamo dedurre che Cristo Salvatore è il primo e supremo soggetto o ministro attivo della liturgia in forza del suo unico sacerdozio e della sua unica mediazione (cf 1Tm 2,5). Egli esercita una presenza sostanziale e operativa indispensabile per l’esistenza e l’efficacia sacramento, in cui sono resi presenti ed attualizzati i suoi misteri della vita terrena, cioè le sue azioni storico-salvifiche.
Si precisa a questo proposito che «l’umanità assunta (anima e corpo) è considerata nel suo attuale stato glorioso di esistenza […] in cui è sempre presente tutto il suo passato storico». In altri termini, si tratta della presenza di Cristo nella sua condizione glorificata, che però non prescinde dalla sua situazione terrena e la attualizza nel sacramento.  Nella persona del Verbo incarnato «sussistono, perdurano tutte le azioni, tutte le disposizioni vitali, tutti gli stati dell’opera salvifica compiuta da lui durante la sua vita terrena». Insomma Cristo è presente in quanto glorificato, non come qualsiasi essere del mondo, determinato dal tempo e dallo spazio, sicché le specie del pane e del vino consacrati «hanno perso la loro esistenza mondana a favore della presenza del corpo e del sangue di Cristo glorioso».
A livello ecumenico «viene unanimemente riconosciuta e accettata dalle Chiese» la formulazione di cinque aspetti già presenti nelle antiche confessioni di fede: 1) «azione di grazie a Dio Padre»; 2) «memoriale di Cristo»; 3) «invocazione dello Spirito»; 4) «comunione dei fedeli»; 5) «pasto del regno». In particolare le Chiese «confessano con gioia quella presenza reale, vivente e attiva di Cristo» di cui si parla nel Documento di Lima (1982).
Ugualmente si constata «una profonda armonia di base» tra anglicani e cattolici sull’eucaristia e sul ministero, in modo speciale riguardo alla «presenza reale di Cristo» nelle specie. Anzi la teologia della presenza di Cristo nell’eucaristia è approfondita in chiave spirituale e vitale dalle tre principali confessioni cristiane, cattolica, ortodossa e protestante.
Si tratta di specificare meglio ciò che viene incluso nell’attualizzazione sacramentale della passione di Cristo: certo non tutti gli atti storici ad essa pertinenti, ma quelli che sono rilevanti nell’ordine salvifico. Qui si apre un varco per il possibile ricupero della disposizione o rivelazione di Gesù crocifisso circa sua Madre (Gv 19,25-27), come vedremo.
Si può quindi concludere che Cristo è presente realmente nell’eucaristia non in modo statico ma dinamico e soteriologico:  La presenza reale del corpo e del sangue di Cristo è il cuore e il fulcro dell’Eucaristia: per questo la Chiesa l’ha sempre difesa con tanta passione. Ed essa è tutta in funzione dell’accadimento sacrificale. Cristo infatti non si fa’ soltanto presente in modo statico: la sua è una presenza quanto mai dinamica, portatrice di salvezza: presenza di vittima che si consuma per noi: è il Christus passus (nel senso di perfectum praesens).

2.1. La presenza di Maria.
Ponendosi su un altro versante teologico, dopo quello dell’esemplarità che mostra Maria come modello di vita eucaristica cui ispirarsi, l’enciclica puntualizza la verità consolante, anche se raramente evidenziata, della presenza di Maria nella celebrazione liturgica: «Maria è presente, con la Chiesa e come Madre della Chiesa, in ciascuna delle nostre celebrazioni eucaristiche» (EE 57).
Già in precedenza Giovanni Paolo II aveva apportato una spiegazione chiarificatrice richiamandosi all’analogia tra il mistero pasquale e la sua attualizzazione eucaristica: «Maria è presente nel memoriale – l’azione liturgica – perché fu presente nell’evento salvifico». È chiaro infatti che Maria nella sua vita terrena ha seguito fedelmente Gesù fin sotto la croce «soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al sacrificio di lui» (LG 58). In realtà sia Luca che Giovanni presentano la Madre di Gesù tutta protesa verso il mistero pasquale. Presso la croce la «spada» dell’opposizione a Cristo da parte dei suoi contemporanei raggiunge il culmine e le trafigge l’anima (Lc 2,34-35). Ella è inserita nel cuore dell’ora di Gesù, cioè del suo abbassamento-glorificazione, dove riceve una maternità nei confronti dei discepoli amati da suo Figlio (Gv 19,25-27).
Non viene specificata il tipo di presenza di Maria nella celebrazione dell’eucaristia, se non che questa «implica anche ricevere continuamente» (EE 57) il dono di lei come Madre compiuto dal Figlio crocifisso. Non per nulla «il ricordo di Maria nella celebrazione eucaristica è unanime, sin dall’antichità, nelle Chiese d’oriente e dell’occidente» (EE 57) e l’anafora romana pone «in venerazione e in comunione in primo luogo con la gloriosa e sempre vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo». Ci soccorre qui una scoperta recente che interpreta la presenza personale di Maria con il suo corpo glorioso e pneumatico, non circoscrivibile dallo spazio e dal tempo.       

2.2. Ave, vero corpo  nato da  Maria Vergine!
La presenza di Maria nella stessa eucaristia, corpo del Signore, è un problema differente e delicato che merita una speciale considerazione teologica. Essa viene codificata nell’antifona medievale (sec. XIV) Ave, verum corpus natum de Maria Virgine, preceduta da un dibattito tra «realisti» e «sacramentalisti» in cui intervengono Ambrogio Auperto, Pascasio Radberto, Ratramno di Corbie e Onorio di Autun.
L’enciclica cita due volte questa antifona, la seconda volta con fede personale e particolarmente sentita: “Lasciate, miei carissimi fratelli e sorelle, che io renda con intimo trasporto […] la mia testimonianza di fede nella santissima eucaristia: Ave, verum corpus natum de Maria Virgine, / vere passum, immolatum, in cruce pro homine!” (EE 59).
Il sottofondo di questa antifona è l’identità fondamentale tra il corpo eucaristico del Signore e quello ricevuto nel grembo di Maria. Il papa la esprime affermando che «l’eucaristia, mentre rinvia alla passione e alla risurrezione, si pone al tempo stesso in continuità con l’incarnazione» (EE 55).
Tale identità è trasmessa dalla nota equazione tra il corpo di Cristo e il corpo di Maria: «La carne di Cristo è la carne di Maria». L’espressione si trova nella forma di «Caro enim Jesu caro est Mariae» nel Sermone sull’Assunzione di Maria dello Pseudo-Agostino, autore sconosciuto che J. Winandy identifica con Ambrogio Autperto (+781). Il contesto riguarda l’assunzione di Maria, più precisamente l’incorruzione del suo corpo. L’autore pensa che se Gesù ha conservato integra la verginità della madre, ha potuto anche preservarla dalla putrefazione, che costituisce «l’opprobrio della condizione umana». Se da essa il Figlio è alieno, lo è anche la Madre da cui egli ha ricevuto la natura umana. A questo punto giunge la frase: “Infatti la carne di Gesù è la carne di Maria, e in modo molto più speciale di Giuseppe, di Giuda e degli altri suoi fratelli, ai quali [Giuda] diceva:  è nostro fratello e nostra carne (Gen 37,27). Infatti la carne di Cristo, sebbene magnificata dalla gloria della risurrezione e glorificata dalla potente ascensione sopra tutti i cieli, rimase e rimane della stessa natura assunta da Maria”.
Come si vede, qui non si tratta del corpo eucaristico del Signore, ma dell’identità tra il corpo glorificato di Cristo e il corpo terreno offertogli da Maria. Il passaggio da essi all’eucaristia, già presente in Ireneo, si esplicita con Pascasio Radberto, che nel De corpore et sanguine Domini (831) mette in risalto il realismo della presenza di Cristo nell’eucaristia affermando che questo contiene il corpo naturale (storico) portato in grembo dalla Vergine, crocifisso e risuscitato.
Un altro benedettino dello stesso monastero, Ratramno di Corbie (+ 875), reagisce alla totale identificazione tra corpo storico e corpo sacramentale di Cristo, osservando la «non piccola differenza tra il corpo che esiste nel mistero e il corpo che ha patito, fu sepolto ed è risorto»: il secondo «è la vera carne di Cristo», mentre il primo è «il sacramento della sua carne». Questo inoltre «rappresenta la memoria della passione o morte del Signore» e ingloba tutti i fedeli che formano un solo corpo con lui. In ogni caso si esige la fede per ricevere il sacramento.
Senza dubbio il riferimento a Maria è garante della retta fede nella presenza reale di Gesù nell’eucaristia. E infatti quando Berengario (+1088) propone un’interpretazione simbolica dell’eucaristia svuotando il realismo del corpo di Cristo, il concilio romano del 1079 gli impone di sottoscrivere che il pane e il vino dopo la consacrazione sono «il vero corpo di Cristo che è nato dalla Vergine» (DS 700). Si evidenzia così il ruolo storico della Madre che è all’origine della vera umanità del Figlio. Maria ricorda che il Verbo incarnato nel suo seno è lo stesso pane di vita offerto in cibo ai fedeli. Ella svolge la funzione preziosa di collegare il sacramento dell’eucaristia con il mistero dell’incarnazione, operando l’identificazione tra il Cristo glorioso e il Cristo storico.
Onorio di Autun (+ 1133/56) conclude il dibattito affermando a proposito delle parole di Cristo nell’ultima cena: «Ecco: è il corpo generato dalla Vergine che egli teneva in mano»[33]. Ma egli precisa che nell’eucaristia si ha la sostanza del corpo di Cristo mentre «il corpo nato dalla Vergine risiede in cielo».  Oggi teologi come J.M.R. Tillard si pongono nella stessa linea di una presenza del corpo e sangue di Cristo non nella loro forma naturale, ma trasfigurati dalla risurrezione e in forma sacramentale: “Il Signore, il Kyrios, seduto alla «destra di Dio» e quindi fuori dal mondo sacramentale, è colui che offre alla sua Chiesa, nello Spirito, sacramentalmente, il dono di se stesso. […] Solo questo corpo risuscitato è il pane di vita per la salvezza del mondo”.

Circa il modo della presenza di Cristo nell’eucaristia, già Tommaso demitizza la teoria medievale, che ritornerà nei secoli seguenti, della «discesa» del Signore sul pane e sul vino, nel qual caso il cambiamento avverrebbe nella persona di lui glorificato.[36] Invece la tradizione orientale e occidentale ricorre alla trasformazione sostanziale degli elementi della Cena del Signore, espressi dai termini metousiosis (oltre la sostanza), metabolè (cambiamento) e transustanziazione (mutamento di sostanza). Allo stesso risultato si perviene con i termini di transfinalizzazione e transignificazione, che indicano un fine e un significato al di là di quelli naturali, quindi «un cambiamento che raggiunge l’ultima profondità degli elementi».
Rimane esclusa la posizione di quanti partono dalla premessa pseudo-scientifica che buona parte del sangue della madre rimane nel figlio adulto. Essi considerano l’identità in modo letterale e quindi affermano che almeno una parte del corpo o del sangue di Maria rimane nell’eucaristia e quindi verrebbe mangiata e si dovrebbe adorare. Autori come Poza, de Vega e Zefirino di Someyre (1663) sostengono che sotto le specie eucaristiche c’è in qualche modo anche il corpo di Maria sebbene sotto differente persona. Tale sentenza di sapore fisicistico viene condannata dal s. Officio. Infatti sebbene Maria sia secondo l’espressione di Dante «la faccia ch’a Cristo più si somiglia», cioè abbia con il Figlio una molteplice somiglianza biologica, psicologica e soprattutto morale e spirituale, un’affinità-sintonia che converge nella spiritualità dei poveri di Jhwh, è da sottolineare che il patrimonio genetico derivante dalla madre si trova nel figlio come persona distinta e separata dalla madre.
In conclusione possiamo precisare alcuni punti fermi circa la presenza di Maria nell’eucaristia:
      a) Anche se dovunque c’è Gesù si trova in lui il patrimonio genetico trasmesso dalla madre, è da escludere nell’eucaristia la presenza fisica di una parte del corpo e sangue della Vergine. In caso contrario si andrebbe non solo contro l’autonomia delle singole persone, ma anche contro la parola di Gesù che rende presente sotto le specie del pane e del vino il proprio corpo e non quello di sua Madre.
      b) L’antifona «Ave, vero corpo  nato da  Maria Vergine!» traduce in preghiera un dato innegabile: l’origine del corpo di Cristo dalla Vergine sua madre. Gesù resta sempre il Figlio di Maria, che lo ha generato per opera dello Spirito santo, ed è pericoloso allontanarsi dal realismo dell’incarnazione. Nell’eucaristia non si ha dunque un corpo irreale né un corpo diverso da quello partorito a Betlemme, ma il vero e medesimo corpo nato dalla Vergine.
      c) Stabilita questa identità del corpo di Cristo, ribadita nell’effato «la carne di Cristo è la carne di Maria», occorre distinguere nettamente la modalità diversa della presenza corporale di Cristo nella sua vicenda terrena, nella sua vita celeste e nel sacramento dell’eucaristia. Il corpo storico di Cristo era mortale e sottoposto ai condizionamenti del tempo e dello spazio; il corpo risorto del Signore è un corpo incorruttibile, glorioso, pneumatizzato e datore di vita (cf 1Cor 15, 42-45); il corpo sacramentale di Cristo realizza una presenza sostanziale, in quanto cambia la realtà o la sostanza del pane e del vino, pur lasciando inalterati i loro dati sensibili (accidenti, nel linguaggio scolastico).
      d) Non esistono difficoltà ad ammettere la presenza di Maria nel rito o celebrazione dell’eucaristia, che avviene in intima comunione con la liturgia della Chiesa celeste e in primo luogo con la Theotokos. La Vergine è presente nell’assemblea liturgica con la sua molteplice intercessione, con il suo materno affetto, con la sua esemplarità che risplende dinanzi alla comunità degli eletti. Si potrebbe ammettere anche una sua presenza personale, in base al suo corpo glorificato. Ma non bisogna confondere questa sua presenza con la presenza eucaristica, che si attua non con la venuta o discesa di Cristo dal cielo sul pane e sul vino consacrati, ma con la trasformazione o transustanziazione di questi elementi nel corpo e sangue dello stesso Cristo.
      e) L’eucaristia non è soltanto il mistero della presenza di Cristo con il suo corpo e sangue, ma anche il memoriale e l’attualizzazione della sua morte e risurrezione, per cui «questo evento centrale di salvezza è reso realmente presente» (EE 11). Giovanni Paolo II aggiunge che «nel “memoriale” del Calvario è presente tutto ciò che Cristo ha compiuto nella sua passione e nella sua morte» e «pertanto non manca ciò che Cristo ha compiuto anche verso la Madre a nostro favore» (EE 57). In questa linea si può concludere che nell’eucaristia si ripresenta e attualizza anche il gesto salvifico di Cristo che consegna Maria alla comunità e questa a lei. Prospettiva attraente che richiederà ulteriore approfondimento teologico.

2.3. Il mondo nuovo frutto dell’eucaristia
Risulta molto significativa la relazione tra l’eucaristia e il regno escatologico di Dio, anticipato nella persona della Vergine assunta. Il nuovo mondo (aspetto cosmologico) e il nuovo uomo/donna (aspetto antropologico) sono frutto del sacramento dell’eucaristia. Conseguenza a prima vista abnorme e sproporzionata, ma rispondente alla legge storico-salvifica che fa derivare il più dal meno, la grandezza dall’esiguità, l’esaltazione dall’umiltà. E Gesù è esplicito nel legare la risurrezione finale alla ricezione con fede del cibo eucaristico: «In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha, ha la vita eterna» (Gv 5,24). «Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno. […] Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. […] Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 40.51).
Siamo di fronte ad una concatenazione inscindibile: ascolto della parola, fede come opzione fondamentale, pasto eucaristico, vita eterna, risurrezione. Questa sequenza è visibile nella vicenda di Maria: Vergine in ascolto, credente e pellegrina nella fede, assidua alla frazione del pane, sperimentata sempre viva dai fedeli e assunta in cielo in anima e corpo. Comprendiamo ora le parole del papa che legano l’eucaristia, Maria e «il mondo rinnovato nell’amore»:
Mettiamoci soprattutto in ascolto di Maria santissima, nella quale il mistero eucaristico appare, più che in ogni altro, come mistero di luce. Guardando a lei conosciamo la forza trasformante che l’Eucaristia possiede. In lei vediamo il mondo rinnovato nell’amore. Contemplandola assunta in cielo in anima e corpo, vediamo uno squarcio dei «cieli nuovi» e della «terra nuova» che si apriranno ai nostri occhi con la seconda venuta di Cristo (EE 62).

3. Conclusioni vitali.
«Sine dominico non possumus vivere», affermava Saturnino, sacerdote e martire durante la persecuzione di Diocleziano all’inizio de IV secolo. La Chiesa vive dell’eucaristia e non può vivere senza di essa. La partecipazione devota e fruttuosa alla Pasqua del Signore celebrata nella liturgia si modella sulla figura di Maria «donna eucaristica». L’enciclica Ecclesia de Eucharistia ci ha offerto molti stimoli e provocazioni che possiamo ora riassumere.

3.1. Con Maria donna eucaristica ruotare intorno a Cristo.
Innanzitutto dobbiamo essere grati a Maria per averci dato Gesù, che poi si comunicherà a noi mediante il sacramento del mistero pasquale. In questo senso Gersone giunge a chiamare Maria, sia pure in modo indiretto, «madre dell’eucaristia». Perciò una viva riconoscenza verso la Madre di Gesù deve sgorgare dal cuore dei fedeli che ricevono l’eucaristia, perché grazie alla sua maternità abbiamo avuto il Pane disceso dal cielo.

Inoltre da lei, tutta protesa verso l’eucaristia con l’intera sua vita e caratterizzata da atteggiamenti eucaristici, impariamo l’autentico cristocentrismo che deve caratterizzare la nostra esistenza spirituale. Qui veniamo illuminati da una magnifica pagina del card. de Bérulle che ci invita a passare dalla concentrazione in noi stessi alla decentrazione in Cristo, come con Copernico si è passati dal sistema tolemaico geocentrico a quello eliocentrico: “Un eccellente ingegno di questo secolo ha voluto stabilire che il sole è al centro del mondo e non la terra. […] Questa nuova opinione, poco seguita nella scienza degli astri, è utile e dev’essere seguita nella scienza della salvezza. Gesù è infatti il sole immobile nella sua grandezza e movente tutte le cose. […] Gesù è il vero centro del mondo, e il mondo deve essere un continuo movimento verso di lui. Gesù è il sole delle nostre anime, che da lui ricevono ogni grazia, illuminazione e influsso. E la terra dei nostri cuori deve essere in continuo movimento verso di lui”.

Questa immagine suggestiva si applica a tutti i cristiani, chiamati a vivere mediante Cristo, con Cristo, in Cristo e per Cristo, secondo la dottrina neotestamentaria riassunta nella liturgia. Ma in primo luogo essa vale per la Vergine Maria, paragonata dalla tradizione cristiana alla luna, un satellite che ruota attorno al sole che è Cristo, da cui riceve la luce e la adatta alla nostra condizione di fragilità.       
In realtà Maria è presentata da Luca come una donna che ricorda e medita continuamente «tutte le cose» riguardanti il Figlio (Lc 2,19.52). Gesù rimane anche per Maria un enigma,  che nessun laser potrà completamente penetrare, un mistero incomprensibile ma che si rivela poco per volta sotto la luce dello Spirito: «Quanto succedeva era così misterioso che Maria doveva scrutarne continuamente il senso e mano a mano che ne sondava le profondità anche il suo cuore si approfondiva».
Maria ha verosimilmente continuato nello stesso atteggiamento meditativo non solo presso la croce e la risurrezione di Gesù, ma anche dinanzi all’eucaristia. Proiettata verso questo mistero, Maria è prototipo degli atteggiamenti eucaristici che vanno dalla fede alla partecipazione viva al mistero pasquale e alla comunione intima con Cristo attuata nella gioia e nella semplicità del cuore. Tutta la spiritualità del magnificat è eucaristica, perché traboccante di lode e stupore dinanzi all’opera salvifica di Dio in colei che si sente sotto lo sguardo benevolo di Dio sulla scia dei poveri e umili del popolo d’Israele. Alla scuola di Maria si vince l’abitudine e il convenzionalismo nel trattare l’eucaristica e ci s’inabissa nella spiritualità dei poveri del Signore.

3.2. Eucaristia ossia essere dono nella comunità.
Maria ci conduce ad un incontro profondo e spirituale con il Figlio, proprio perché nell’eucaristia è presente Cristo con «il suo vero corpo nato da Maria Vergine», come richiama Giovanni Paolo II e come si evidenzia nella spiritualità popolare: “Ben a ragione la pietà del popolo cristiano ha sempre ravvisato un profondo legame tra la devozione alla Vergine santa e il culto dell’eucaristia: è, questo, un fatto rilevabile nella liturgia sia occidentale che orientale, nella tradizione delle Famiglie religiose, nella spiritualità dei movimenti contemporanei anche giovanili, nella pastorale dei santuari mariani. Maria guida i fedeli all’eucaristia” (RM 44).
Una volta orientati verso l’eucaristia dobbiamo assimilare vitalmente la benedizione biblica, operando il passaggio verso un’antropologia della lode e una cosmologia del dono. Niente contrasta tanto con la preghiera di benedizione quanto la riserva esclusiva ed egoistica delle realtà terrene. Niente è tanto richiesto dalla sovranità del Dio dell’universo quanto la condivisione e la solidarietà.
Quando poi fissiamo lo sguardo nel cuore a Cristo presente nell’eucaristia, possiamo ritenere di non aver capito niente se non abbiamo compreso che Cristo stesso è l’essere-per-noi, che il suo corpo è dato per noi e il suo sangue è sparso per noi. Anche la nostra vita deve divenire una pro-esistenza.
Tutt’altro che invitarci ad un circolo chiuso d’intimità tra noi e Cristo, l’eucaristia è essenzialmente marcata dalla carità verso i fratelli e sorelle bisognosi, in quanto è il sacramento dell’unità della Chiesa.
Uscire dalla celebrazione eucaristica senza un aumento di comunione con tutte le componenti della Chiesa e dell’umanità, significa essere ciechi e sordi alle interpellanze del Pane di vita. Viceversa ci dev’essere continuità e armonia tra l’unità con Cristo e un’antropologia relazionale ispirata dall’amore. Questa viene così descritta: “È estremamente importante dire a questo nostro mondo che è necessario vivere l’amore della verità, la sincerità, la disponibilità ad imparare, la capacità di dialogo, la disponibilità al conflitto sentendole come virtù che permettono di andare avanti tutti insieme. Non possediamo la verità, ma ci potrebbe essere la fiducia di avvicinarcisi insieme. Questo sarebbe già un fatto di enorme valore. Oggi i giovani si rendono conto che, rispetto a quello che si fa, è più determinante il modo in cui ci si relaziona vicendevolmente”.
Lo Spirito trasforma il pane e il vino in corpo e sangue di Cristo, analogamente alla sua opera nell’incarnazione nel seno della Vergine e alla sua azione nell’umanità che consente a lasciarsi conformare al Figlio Unigenito: una rigenerazione alla quale collaborano la Madre Chiesa e la Madre Maria.
In una società caratterizzata sempre più dal pluralismo etnico, culturale, socio-politico e religioso, questa proposta che scaturisce dall’amore per gli altri e per gli ultimi si presenta come la più universale possibilità di intesa. Così, si comprende come l’Eucaristia, il Sacramento dell’amore, e il nesso Eucaristia-Maria costituiscano un singolare luogo di costruzione dell’unità della famiglia umana, rivelazione del mistero del Nuovo Adamo e della Nuova Eva. «Solo dall’Eucaristia profondamente conosciuta, amata e vissuta si può attendere quell’unità nella verità e nella carità voluta da Cristo e propugnata dal Concilio Vaticano II».

 

Preghiera alla Madonna della Civita

Vergine Santa, Madre di Dio,
che qui, in questo luogo di grazia,
dispensi favori e doni spirituali
a quanti ricorrono a te
con cuore sincero, animo contrito
e con il forte desiderio di incontrare Dio.

Mostraci, Madre della divina grazia,
il tuo Figlio Gesù ed indicaci la strada
che porta al cielo,
ove possiamo, un giorno,
godere per sempre la gioia eterna.

Non abbandonarci, Maria della Civita,
in questa valle di lacrime
tu che dal Monte Santo,
vegli sul cammino di tutti i tuoi figli,
che abitano qui o sono sparsi nel mondo,
diffondendo Il tuo nome glorioso e potente
in ogni angolo della terra.

Non permettere o Madre dolcissima
che nessun dei tuoi devoti si perda
in cerca di false felicità terrene,
ma guidalo all’ascesi,
come cammino per volare sempre più in alto,
incontro a Cristo, tuo Figlio,
che Tu ci porgi con infinito amore di Madre.

Ti chiediamo o Madre Santa
che la nuova civiltà dell’amore
prevalga sulla cultura dell’odio e del terrore,
che l’amore e la solidarietà tra gli esseri umani
trovi sempre più spazio nel cuore
di tutti gli uomini di questa martoriata terra.

Difendi Tu dal cielo i bambini di tutta la terra;
sostieni i giovani nel cammino della loro vita
umana, sociale, culturale e lavorativa,
spesso segnata da insanabili conflitti;
benedici i papà e le mamme di famiglia
che ogni giorno si sacrificano per i loro figli.
Sii vicina a quanti soffrono nel corpo e nello spirito,
a quanti profughi e stranieri
vivono la loro condizione di umiliazione
e di alienazione, senza possibilità di redenzione.

Tu che sei arrivata da terre lontane e qui hai trovato dimora
da oltre un millennio dell’era cristiana
portata da mani sante e benedette,
fa che in ogni angolo della terra
risuoni l’unica parola che Cristo Redentore
ha recato  al mondo come Buon Pastore,
che è l’ amore.

Vogliamo vivere, Maria, nell’amore sincero
verso Dio e verso i nostri fratelli,
vogliamo spezzare i vincoli dell’odio,
della vendetta e della violenza.
Vogliamo essere operatori di pace e di concordia,
dovunque il Signore ci chiama a vivere
la nostra  vocazione e missione
di battezzati e  consacrati
alla diffusione del Regno di Dio tra di noi.

Sul tuo esempio, Madre benedetta del Monte Civita,
noi vogliamo seguire Gesù e fare veramente
quello che Egli ci dirà di fare,
nella costruzione di un mondo
riconciliato con Dio nell’amore.
Amen

Padre Antonio Rungi, passionista
Festa della Civita, anno 2012

 

Itri (Lt). Nono giorno del novenario in onore della Madonna della Civitaultima modifica: 2012-07-11T09:25:00+02:00da pace2005
Reposta per primo quest’articolo